Nella critica del ministro Crosetto alle recenti scelte di politica monetaria della Bce, oltre all’invasione di un campo di non propria pertinenza, c’è un po’ di demagogia «sovranista», sempre utile a tenere alto il morale dei sostenitori del primo governo di destra-destra della storia repubblicana, ma anche qualche giudizio sensato. La tempistica? Avrà forse influito la recente pubblicazione, sul Financial Times, del risultato di un sondaggio condotto presso un campione di economisti di vari Paesi e di diverso orientamento, secondo cui l’Italia «sarà il Paese dell’Eurozona più esposto a una crisi del debito in seguito all’aumento dei tassi ed al minor acquisto di obbligazioni da parte della Bce».

Ma partiamo dalla prima considerazione, ovvero dal taglio demagogico-sovranista della sortita del ministro. Parlare disinvoltamente, a proposito di Eurotower, di «organismi indipendenti che rispondono solo a se stessi», significa mettere implicitamente in discussione sia l’indipendenza della banca centrale che l’utilità dell’euro. Per come è strutturata oggi l’Europa, non può esserci moneta unica senza una banca totalmente indipendente dai venti diversi – e variegati – governi dell’eurozona. Indipendente e transnazionale. Un caso unico al mondo, certo, su cui esiste un’ampia letteratura critica, non solo di matrice no-euro. Critiche fondate, spesso. Ma Crosetto, con la sua intervista al quotidiano La Repubblica, ha voluto mettere in discussione l’euro? No, è come quando la premier Meloni, dall’opposizione, parlava di «scioglimento concordato e controllato della zona euro» o come quando Salvini metteva nel simbolo della Lega la scritta «Basta euro» e candidava nelle sue liste economisti come Claudio Borghi o Alberto Bagnai per rendere più credibile la sua crociata contro la moneta unica, salvo poi abbracciare l’europeismo alla bisogna e sostenere perfino un governo guidato dal banchiere Draghi. Ci siamo abituati.

Ma andiamo al merito. Che la Bce a guida Lagarde stia sbagliando l’approccio ai problemi economici del momento non ci sono dubbi. Vale per il rialzo dei tassi, ma anche per le decisioni in materia di politiche monetarie non convenzionali (acquisto di titoli). Quali risultati possono dare condizioni più restrittive per l’accesso al credito dei cittadini e delle imprese nella lotta all’inflazione, se quest’ultima è figlia dell’aumento del costo delle materie prime e di strozzature dal lato dell’offerta? Solo quello di deprimere l’economia. Ma si sa, nelle scelte di banchieri e governanti pesano a volte più i dogmi della teoria economica che il senso della realtà e della storia. Vecchia questione. Già nel XIX secolo, prima di Marx, la «scuola storica» di lingua tedesca, sentenziava, a ragione, che le cosiddette «leggi economiche», stabilite «attraverso lo sviluppo di corollari di pochi postulati», non possono avere validità universale. Ma tant’è. «La storia insegna ma non ha scolari», dirà poco meno di un secolo dopo Gramsci.

Intanto, per quanto riguarda il nostro Paese, le stime preliminari dell’Istat dicono che, nel mese di dicembre, l’indice dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,3% su base mensile e dell’11,6% su base annua (dato più alto dal 1985), col carrello della spesa (beni alimentari, per la cura della casa e della persona) al 12,6%. Inefficacia della politica dei tassi. Ciò, mentre il Fondo Monetario Internazionale ammonisce che per l’economia globale «il peggio deve ancora venire» e che nella zona euro i Paesi più vulnerabili sono, manco a dirlo, Italia e Germania (i più esposti alla crisi del gas, per di più fortemente interdipendenti). Per l’Italia, il problema si chiama anche debito pubblico. Ora più che mai, vista la decisione di Francoforte di ridurre drasticamente il reinvestimento del capitale rimborsato sui titoli in scadenza (il ritmo della riduzione sarà pari, in media, a 15 miliardi di euro al mese, fino a metà 2023). Con l’ombra del Mes che continua ad aleggiare. Temi seri. Come quello di una sterilizzazione del debito degli Stati nelle mani delle banche centrali nazionali, che però rimane un tabù ai vertici di Bruxelles e Francoforte. Ed anche in Italia. Meglio spararla grossa sull’indipendenza della Bce, che di fronte alle difficoltà, per usare una metafora calcistica, è come buttare la palla in tribuna.