Il giorno esatto dell’uscita in libreria del numero 767 della «Piccola Biblioteca» Adelphi, iconico «doppio autoritratto» costruito sulla memoria autoidentificativa del raro maestro di archeologie contemporanee quale fu «tra i miti il mito» – l’ormai supercitato Roberto Bazlen –, quel 28 luglio 2021, di Roberto Calasso, autore dell’appena edito libretto in forma di personalissimo ex-voto, con precisione iperuranica la cronaca informava della «dipartita», a sorprendente imitazione iniziatica extratemporale, quasi a volersi sovrapporre, affidando il proprio tempo al volo delle casualità in misteriosa imitazione subterrena del suo ideale culto e «modello»: morto anch’egli in una calda estate, il giorno avanti, il 27 luglio, del 1965.
Il piccolo libro (pp. 97, € 12,00), titolato confidenzialmente Bobi, dal familiare Roberto di ascendenza dialettale triestina, affabula la memoria: una testimonianza in prima persona di un allora giovanissimo Calasso quando, a Roma, fu travolto dalla personalità prorompente di Bazlen, esploratore unico di universi letterari. «Parlava continuamente di libri che pochi o nessuno aveva letto». Un «lettore» capace di individuare nei testi il possibile segreto della creatività letteraria. La forma scritta come oggetto di svelamento di ciò che si pretenderebbe far comprendere al di là del significato medesimo delle parole. L’opera in quanto tale.
Personalizzato da Calasso in schegge di memoria della crescente confidenza, Bobi è un ulteriore ritratto di una intrigante Primula Rossa. E anche, diciamo a futura memoria, la testimonianza di chi visse dall’interno la nascita e lo sviluppo di una casa editrice, l’Adelphi, con l’aura e le suggestioni formulate da Bazlen. Pur costeggiandola direttamente, a Calasso l’ombra di Bazlen sfugge e si nascose, tra le affabulate rievocazioni e il chiacchiericcio di chi Bazlen aveva conosciuto e si ostinava a raccontarlo. Nella ciarla del Novecento letterario italiano, mettendo al centro il «mistero» Bazlen, si gioca sempre a rimpiattino: ricerca ostinata dello scoop, dell’inedito, della testimonianza da conciergerie. Ogni tipo di svelamento per sorprendere e meravigliare: sono le immagini che nel rievocare Bobi emergono fantasiose da testimonianze avventizie tali da consentire all’immaginazione la «costruzione» di uno scenario sempre nuovo, magari fantasiosamente ricreato.
A ogni riesumazione di personaggio «raro» è necessario tuttavia mettere le cose a posto. Come in un’anagrafe andata fuori sesto, è obbligatorio e opportuno ripartire sempre dal principo… Si chiamava Roberto Bazlen. Era nato a Trieste 10 giugno 1902. Morì a Milano il 27 luglio 1965, come detto. A vent’anni, al di là di leggere in tre lingue (il tedesco primario) e di scrivere segretamente versi, non sapeva fare niente. Nemmeno un po’ di elementare dattilografia. Che imparò (male) facendo l’impiegato in una ditta di importazioni a Genova dove lo aveva collocato uno zio per avviarlo comunque a un lavoro. Dalle esercitazioni dattilografiche compiute in ufficio trasse un sublime scartafaccio sull’onda del Dada, che è una sorta di autobiografia esistenzial-letteraria. Quando si conobbero in un caffè genovese, e divennero amici (Bazlen fu per me una finestra spalancata sul mondo), cambiò i connotati a Eugenio Montale, ribattezzandolo Eusebio; e fu la levatrice dei versi di Dora Markus: aveva spedito allo scontroso autore degli Ossi di seppia la fotografia di un paio di gambe femminili: «Perché non ci scrivi sopra una poesia?».
E queste sono alcune tessere che reggono un curioso gioco dell’oca, che vorrebbe consentirci la confidenza con il celebrabile Bobi, qual tentativo ulteriore di svelamento di quel che sembrerebbe essere un irrisolto fantasma della letteratura italiana del Novecento, slavinando in un coacervo di scenari ron-ron: corrispondenze inedite a onore del solito scoop, dove i pettegolezzi ça va sans dire si sciolgono nel mito. Tutto a onore di quel rompicapo esistenziale che fu Roberto Bazlen, scrittore senza libri, di cui rimane quale memoria un’invitta fascinazione. A un certo punto lasciò Trieste. Elesse Roma a sua città. Il ricordo del sito natale lo coltivò come uno spettrale simulacro.
Cultore di pergole delle osterie dalle parti di Olevano Romano, epistolografo, scriveva lettere erudite e gaglioffe fitte di garbugli e tripli salti mortali, carteggiava a briglia sciolta con letterati del suo tempo: Umberto Saba, Italo Svevo, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Stelio Mattioni e con madamine in foia di letteratura: Gerti Frankl, maliziosa «maghetta» triestina – quella del Carnevale di Montale –, Lucia Rodocanachi, Anita Pittoni, Franca Malabotta, Linuccia Saba, Ljuba Blumenthal, gratificate dall’attenzione di uno scanzonato della vita. Con giochi: «la gianna (Manzini ndr) hélas resta il più grande scrittore contemporaneo e per lei ho creato il concetto di catafalqui (Falqui ndr) cui si puo aggiungere l’ariana (Adriana ndr) pincherle… Dato che ti ha fatto piacere: Guttuso: Guttus Lautrec ovvero Il Picasso della contezza… Sinisgatto e i Pennerasti… io mangio con i secondi, anzi, di penna sono molto amico…».
«…non ho reagito subito alla tua lettera. scusami, ma dopo i mesi di felicità assoluta sono entrato nel mese della sonnolenza ininterrotta, e salvo lebenswichtiges (cose di importanza vitale) non ho fatto altro che cader sfinito sul letto… in queste ultime settimane avrei dovuto scrivere ausgerechnet (proprio) una lettera d’amore ma sono invece stato costretto a scrivere parecchie lettere di poche righe in cui annunciavo la lettera d’amore per quando avrò finito di dormire…».
Iconoclasta di professione, Bazlen viveva in una zona grigia. Si potrebbe definire di frontiera. Non imitava nessuno. Era se stesso con autentica spontaneità. Incatalogabile. Schivava ogni appartenenza affettiva, morale, e politica. Era semplicemente un uomo a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia, esercitando il suo influsso su quanti potevano comprenderlo, rifiutando di apparire alla ribalta. Intrugliato nella psicoanalisi, costeggiava cartomanzie e simboli. Un tipo come questo Bobi biografato sembra essere un’invenzione raccontata, e quelli che lo raccontano vorrebbero sedurci con i loro episodi esistenziali che sfiorano l’aneddotica. Bazlen è stato semplicemente un grande non-scrittore, una scheggia non codificata di avanguardia europea, un vero e proprio performeur. Le sue intenzioni le aveva dichiarate: «Non si possono più scrivere libri ma soltanto note a piè di pagina». Tutto è affidato alla fantasia della memoria. La finzione come apparenza. «Scrivere non è importante, però non si può fare altro».
Un poco ci si deve tuttavia dar ragione di quel supercilioso rompicapo esistenziale che fu Roberto Bazlen, scrittore senza libri. Un tipo di cui uscirono postumi, per cura dei suoi amici, Note senza testo, Lettere editoriali e un morceau di romanzo, Il capitano di lungo corso. Poi, per chi fosse volontaristicamente intrigato, era uno che aveva esplorato tutti i libri del mondo. Leggeva e fumava, questa fu la sua vita. Faceva il consulente editoriale, consigliava libri da pubblicare. Senza di lui chissà quando avremmo scoperto L’uomo senza qualità di Musil di cui sollecitò la traduzione in italiano: «…come valore assoluto rimane una della faccende più grosse tra i grandi esperimenti di narrativa non conformista». Resa concreta da Luciano Foà e poi proseguita da Calasso, partecipò idealmente alla nascita della Adelphi.
Foà raccontava che l’idea di una casa editrice come l’Adelphi era molto antica. Bisognava tornare al 1937, quando lui aveva conosciuto Bazlen che lo aveva dissuaso dal progetto di fondare una rivista letteraria. «L’Adelphi nacque per pubblicare autori che uscissero fuori dai binari codificati da una visione del mondo erosa in senso deteriore…». Libri del passato e della contemporaneità, «luoghi» della realtà e dell’immaginazione, del mondo degli affetti e del pensiero. Si trattava di far scoprire o riscoprire i grandi scrittori della crisi europea, Hesse, Joseph Roth, Walser, Lernet Holenia, la spiritualità orientale, la mitologia classica… Kubin, L’altra parte; Gosse, Padre e Figlio; Potocki, Manoscritto trovato a Saragozza; Artaud, Al paese dei Tarahumara; Abbott, Flatlandia; Groddeck, Il libro dell’Es…, Shiel, La nube purpurea… È in questi libri che si può «intravvedere» la biografia e l’anima letteraria di Roberto Bazlen, «un grande sgangherato», come alluse a sé, sovrapponendosi a un personaggio di Hamsun, in una lettera inviata il 10 maggio 1961 a Luciano Foà: «Nagel è uno dei grossi personaggi paradigmatici, uno dei più grossi, della serie che Werther da un lato, Adolphe dall’altro, porta a Leopold Bloom… Nagel con un vestito giallo, un berretto di velluto bianco, molti soldi in tasca, qualche valigia, una cassetta di violino (vuota, con dentro stracci e carte, perché lui non sa suonare; invece suonerà straordinariamente; ma finirà con una stonatura da far fremere), forse agronomo (chi sa), si stabilisce nell’alberghetto di un piccolo porto di mare norvegese, parla parla parla, fa lega con un mezzo deficiente che forse non è mezzo deficiente, parla parla parla, beve, s’innamora perdutamente (ma forse no) di una giovane bellissima, parla parla parla, beve ancora di più, avvelena un cane, si esalta esalta esalta, tiene discorsi nietzscheani tutti sballati e in fondo tutti giusti, vuol sposare (ma forse no) una donna attempata, parla si esalta beve, fa i pasticci più inverosimili, tenta di avvelenarsi ma fa fiasco, finché alla fine si ammala e si butta in mare». La propria autobiografia Bobi l’aveva scritta. Sondando l’indeterminatezza dell’esistente.