Ogni volta che si affronta il Bauhaus c’è il rischio, come rilevò Tomàs Maldonado, di incorrere in una «leggenda». Quando «una realtà è troppo ricca e complessa – ha scritto infatti il designer e saggista argentino – la favola viene in suo aiuto per renderla più facilmente leggibile». Pertanto quando si parla della scuola di progettazione più famosa del Novecento è sempre in agguato il pericolo di vederne «distorti» i fatti per racconti celebrativi e sommari. Un’eventualità che la mostra al Vitra Design Museum della città tedesca Weil am Rhein dal titolo The Bauhaus #itsalldesign (fino al 28 febbraio) ha voluto evitare collocandosi su un versante diverso da quello solo storico. Lo mostra è stata infatti costruita per cogliere il contributo pedagogico del Bauhaus, tutt’ora motivo di riflessione critica e, per la curatrice Jolanthe Kugler, di rilevante attualità, come dimostrano le opere di designer e artisti contemporanei selezionati per un confronto con i pionieristici prodotti della scuola tedesca.

Bauhaus_Walter Gropius_cartolina con note dell'edificio del Bauhaus a Dessau (1926)

Suddivisa in quattro sezioni, la mostra inizia presentando le idee, i concetti e il contesto che hanno conformato il Bauhaus (#createcontext). Il primo riferimento è il suo «Programma» (Weimar, 1919) nel quale è già esplicita la volontà del suo fondatore, Walter Gropius, di creare una «nuova corporazione di artigiani senza le distinzioni di classe» causa prima dell’«arrogante barriera tra artigiano e artista». È a questa nuova comunità che si affida il compito di cambiare radicalmente la società e di edificare la Cattedrale del futuro, elevata a simbolo del socialismo. Feininger la disegnerà sotto forma di un cristallo, ma di lì a qualche anno, quando il Bauhaus si trasferirà da Weimar a Dessau, questa è già superata: immaginata più prosaicamente da Oskar Schlemmer, nella crisi politica ed economica che agita la Germania, come una «casa semplice» ma al tempo stesso «decorosa e solida».

Formali analogie

Cambiano, dunque, i simboli e il «contesto creativo», che nel corso degli anni (1919-1932) subirà profonde modifiche: un aspetto che la mostra non evidenzia in modo significativo, perché tesa a cogliere esclusivamente i collegamenti con il presente. È il caso dell’accostamento tra lo schema di montaggio della seduta Spring Seat (1933) di Marcel Breuer e lo sgabello Opendesk di David e Joni Steiner (2013), quest’ultimo frutto delle tecniche dell’open design con il quale oggi è possibile condividere la progettazione con altri autori, ma che non giustifica le affinità con la sperimentazione e le finalità sociali del Bauhaus come la mostra vorrebbe far intendere.

Bauhaus_Marianne Brandt_Studente su uno dei balconi dell'edificio del Bauhaus (Dessau, 19281929)

Anche il dialogo tra il mobile in mattoncini Lego (Lego Buffet) dello Studio Minale-Maeda (2010), stereometrico quanto la sedia TI1a di Marcel Breuer (1922) che vi sta accanto, non consente di andare oltre la semplice analogia formale. In compenso la sezione è ricca di materiali e documenti originali. Si va dalle fotografie di Albert Hennig, che ritraggono bambini e uomini in cerca di cibo tra i rifiuti del mercato coperto di Lipsia, ai disegni espressionisti intorno al tema della Catena di vetro – anch’essa simbolo della Gesamtkunstwerk bauhausiana – di Bruno Taut, Hans Scharoun, Hermann Finsterlin e August Hablik, fino ai molti manifesti, programmi didattici e locandine che raccontano il Bauhaus Model.

È bene ricordare che il «Modello Bauhaus» ha la sua origine dalla fusione tra le due scuole granducali: quella d’Arti e mestieri, fondata a Weimar da Henry van de Velde, e quella di Belle Arti. È da qui che prende le mosse la «disunità produttiva» della quale parla la Kugler. Questa non riguarda solo i modi – flessibili e democratici – che regolano la collaborazione tra studenti, «maestri artigiani» (Werkmeister) e «maestri della forma» (Formmeister). La «disunità produttiva» interessa piuttosto gli indirizzi pedagogici che da subito all’interno della scuola confliggono a causa delle divergenti posizioni dei Meister: tra chi difende ancora il fare artigianale e chi vuole aderire all’evolversi delle tecniche di produzione della fabbrica.

Bauhaus_Lux Feininger_Sport al Bauhuas di Dessau (1927)

Tra le molteplici tracce di questi profondi contrasti è emblematica la locandina pubblicitaria della Jttenschule: la scuola aperta da Johannes Itten a Zurigo dopo la sua uscita dal Bauhaus per la decisione presa da Gropius di «lavorare con le macchine», l’opposto della visione artistica del pittore svizzero. Cosa volesse intendere l’architetto tedesco per insegnamento rivolto alla produzione di massa lo spiega la seconda sezione della mostra (#learnbydoing). Così dai laboratori artigianali di Weimar che nelle fotografie sono pieni di allievi che «imparano facendo», si passa, nel 1925, a Dessau, con la costituzione della Bauhaus GmbH: la società a responsabilità limitata incaricata dello sfruttamento commerciale degli oggetti e arredi disegnati nella scuola che ebbe un modesto successo economico.

Tra sperimentalismo e emulazione

Dentro alcune vetrine sono esposti gli esemplari più famosi: servizi da tè e posaceneri (Josef Albers, Marianne Brandt, Otto Rittweger), ceramiche (Otto Lindig, Theodor Bogler), la macchina da caffè Sintrax e il contenitore per cibi Kubus, tutti in vetro, di Wilhelm Wagenfeld. Sopra dei ripiani sfalsati sono invece sistemate le sedie in tubolare di acciaio cromato, il set di tavoli B9 (1926-1928) di Breuer, la poltrona MR20/3 (1927) di Mies van der Rohe e la sedia modulare di Erich Dieckmann in legno e vimini. Anche in questo caso accanto agli arredi iconici del Bauhaus compaiono quelli dei contemporanei: le sedie Workshop (2009) di Jerszy Seymour o l’AP2 (2005) di Front Design.

Bauhaus_Laboratorio di pubblicità a Dessau_(1926)

È evidente la distanza che separa questi pezzi dai principi formali del Bauhaus, distinti tra eccentrico sperimentalismo oppure – è il caso del monocromo tavolo con sedia Pipe (2009) di Konstantin Grcic – semplice emulazione. Diverso è il caso di una serie di oggetti di Unfold e Kirschner3D (metro, goniometro) che trasferiscono le misure reali di un materiale esistente o di un oggetto in un file digitale. Questa applicazione sarebbe piaciuta di sicuro a Hannes Meyer (il successore di Gropius alla direzione della scuola nel 1928) per il suo carattere scientifico e concreto: le stesse qualità che l’architetto svizzero volle introdurre nel suo corso di edilizia. Si deve a lui se fu ristabilito nella scuola il principio fondante, cioè che «lo scopo ultimo di ogni attività figurativa è l’architettura».

Di questo tratta la terza sezione della mostra (#thinkaboutspace) nella quale si spiegano con cura le componenti di quello stile Bauhaus, essenziale e «oggettivo», che contraddistinse non solo il design, ma anche l’architettura, razionale e standardizzata così come prevista nella plastica combinazione delle unità del complesso di abitazioni Am Horn a Weimar (1920-22).

Lo stretto rapporto tra l’uomo e lo spazio non riguarda, però, solo le nuove tipologie edilizie, ma l’educazione infantile, la danza, il teatro, attività espresse nell’invenzione dei giochi in legno di Alma Siedhoff-Buscher o di Friedrich Fröbel nelle scenografie di Roman Clemens, nelle fotografie di Hugo Erfurth dei ballerini della Palucca Dances o più in generale nelle rappresentazioni spaziali di Albers e Moholy-Nagy.

Partitura a due voci

Il potere dello spazio vitale (Lebensraum) è interpretato anche da AYRBRB nella fedele ricostruzione (Home ’14, 2014) della Stanza Co-op di Meyer che una fotografia dell’epoca fissa in tutta la sua dimensione monastica; oppure è riprodotto nelle stranianti gigantografie di Adrian Sauer che «dipinge» a colori somiglianti interieur bauhausiani. Se il costruire è un’attività che interagisce con le arti e le nuove tecniche (industriali), lo stesso vale per la comunicazione che nella scuola svolge un ruolo fondamentale ed è oggetto dell’ultima sezione espositiva (#communicate). Qui sono presentati molti materiali tra brochure, manifesti, giornali e molte pubblicazioni – tra le quaranta edite – che dimostrano l’importanza che presso la scuola avevano i modi e le forme della divulgazione teorica e didattica. Lo stesso catalogo della mostra rende omaggio a ciò con una serie di pagine ognuna diversamente colorata che illustrano sia il glossario bauhasiano (all’inizio) sia la partitura per due voci (alla fine) dell’artista concettuale Olaf Nicolai dettata dalla «composizione romantica» di Kandinsky Violett: mai pubblicata per i tipi del Bauhausbü cher.

Bauhaus_Erich Consemuller_Donna su sedia B3 di Marcel Breuer con maschera di Oskar Schlemmer (1926)
La «nuova visione» del Bauhaus si nutre dell’invenzione di originali caratteri tipografici (Futura, Schelter-Grotesk) e un diverso uso della fotografia (Fritz Schleifer, Walter Peterhans, Albert Henning) che sembra ancora ispirare moderni designer come MIRO e Karo Akpokiere. Quanto di problematico rappresenti ancora il Bauhaus la curatrice l’affida ai saggi critici presenti nel catalogo (Arthur Ruegg. Sebastian Nerauter, Claire Warnier e Dries Verbruggen, Ute Famulla e Patrick Rossler), tutti volti al confronto tra le odierne pratiche industriali e la «tradizione» della scuola tedesca, e a una provocazione dell’artista Tobias Rehberger: «Il Bauhaus è stato uno dei più radicali, mutevoli, concetti estetici. Probabilmente mai».