Una foto-ritratto di André Bauchant: fa parte di un servizio realizzato nel 1928 a Auzouer-en-Touraine dall’ungherese André Kertész

 

André Bauchant, “Paysanne au repos sous un arbre”, 1944, già Parigi, collezione Dina Vierny

 

La prima scena del caso Bauchant data 1921: al Salon d’Automne, Charles-Édouard Jeanneret, che l’anno prima ha cominciato a firmarsi Le Corbusier, ha una specie di choc davanti all’insieme di tele, nove, che espone un pittore venuto dal nulla, tale André Bauchant, vivaista e vignaiolo di Turenna, originario di Château-Renault (Indre et Loire), dove è nato 48 anni prima. Vestito come un paesano il giorno di festa, la testa grande, la barba caprina, egli monta la guardia ai suoi dipinti, e ai pochi che se ne incuriosiscono, e che magari esclamano «È del Rousseau reso migliore da Marie Laurencin», «C’est du Bauchant!», dichiara.
L’anno dopo Le Corbusier dedica al pittore un breve saggio, scritto insieme al sodale Amedée Ozenfant, siglato con lo pseudonimo De Fayet e pubblicato ne «L’Esprit Nuoveau», la rivista con cui i due indicano la necessità di depurare il cubismo, che vedono trasformarsi, negli sviluppi del dopoguerra, in un prontuario di formule, dall’esito decorativo. È proprio questa urgenza teorica, si può credere, ad attirare l’attenzione di Le Corbusier e Ozenfant sul ‘primitivo moderno’ Bauchant. Al di là delle opzioni di gusto, il dipingere marziano di quello strano individuo tourangelle, la sua ricostruzione alfabetica del reale sulla base di una fantasia coltivata in solitudine, dove gli alberi e le bestie dialogano con gli dei e gli eroi della Grecia antica in una luce specchiante e sotto un cielo turchino un po’ allucinato, rappresenta per loro un’igienica tabula rasa contro il cerebralismo manieristico scaturito dalla crisi delle avanguardie prebelliche.
Più del Doganiere Rousseau
L’opera d’arte del futuro non può avere nulla di accidentale, mimetico, pittoresco; comporta un ampliamento delle determinazioni estetiche mirante all’universale: l’incontro fra il «dadaismo cartesiano» dell’«Esprit Nouveau» e il primitivismo certosino di Bauchant, che si impadronisce del visibile nell’atto stesso in cui lo definisce, può giustificarsi in questa chiave. Ed entrambi interpretano nel modo più conseguente, per quanto opposto nelle soluzioni formali, l’idea cubista del quadro come realtà stabile, entità autonoma, organismo vivente. Poiché per Le Corbusier e Ozenfant «il più alto diletto dello spirito umano è la percezione dell’ordine» (Après le cubism, 1918), la maniera di comporre di Bauchant, che ottiene istintivamente un solido, raffinato bilanciamento nella distribuzione delle masse e nei rapporti cromatici, non poteva lasciarli indifferenti: ma è un ordine indistinguibile dal ‘pittorico’, e in questo senso, forse, essi vi avvertivano segretamente un monito, dato il rischio di aridità teorematica che correvano i loro propri tableauxs – aridità contestatagli del resto, esageratamente, da tanta critica.
I due tirano in ballo, a proposito di Bauchant, Le talent, come titolano il loro scritto. Ammettono non esistere spiegazione razionale dinanzi al «talento», alla qualità nativa, di cui è prova vivente questo autodidatta, che ha scoperto di saper disegnare durante la guerra, alle Sables d’Olonne sull’Atlantico, con l’apprendistato per imparare la telemetria. Più del Doganiere Rousseau, la cui naïveté ha pur sempre un’implicazione parigina, più della stessa Séraphine de Senlis, caso che comporta la categoria del ‘mistico’, Bauchant rappresenta una sfida radicale all’idea storico-artistica dell’‘influenza’.
Egli visita Parigi per la prima volta nel 1900, a ventisette anni, durante il viaggio di nozze: c’era l’Esposizione Universale. Nel curiosare, alimenta la sua passione per la storia e le leggende greco-romane, bibliche, così come francesi, acquistando manuali e altri libri (Les Ruines di Volney, qualche classico Flammarion…) che diventano il fondo della sua selezionata biblioteca di campagna: costituiranno per lui le sorgenti delle costruzioni immaginative. Un’altra decisiva circostanza: tra il 1915 e il ’16 si trova impegnato in un’operazione militare ai Dardanelli dove, ha scritto, «je vivais mes rêves de jeunesse», «Homère etait mon compagnon, l’Olympe, les dieux». Si trattava soltanto di trasferire in pittura: lo farà presto, un gioco da ragazzi.
Ai suoi esordi Bauchant nulla sapeva né degli impressionisti, né dei fauves, né dei cubisti, e nemmeno di Rousseau, le cui opere, che conoscerà più tardi, lo influenzeranno ma non troppo: soprattutto negli stringati ritratti. Storicamente, i termini critici del caso li stabilì, insieme a Corbu, colui che per primo aveva avvertito, già nel ’07, la stregata novità delle Demoiselles d’Avignon: Wilhelm Uhde. È il prussiano Uhde che, già avanti guerra, introdusse, a partire dall’opera del Doganiere, la categoria di ‘primitivo moderno’. A Rousseau egli affiancò negli anni venti pittori di seconda generazione, Séraphine de Senlis, Bombois, Vivin, Boyer, Rimbert e appunto Bauchant, gruppo a cui dedicò nel ’28 la mostra iniziatica Les Peintres du Cœr Sacré. Su Bauchant, Uhde giungeva però secondo: la strada era stata aperta da Le Corbusier, che spinse Jeanne Bucher, intrepida gallerista dell’avanguardia, a scommettere sul pittore. È proprio in una personale dalla Bucher (dicembre 1927) che il critico tedesco ‘acquisiva’ Bauchant, cui darà un posto tra i Fünf Primitive Meister (1947, postumo).
A proposito di Rousseau, Kandinskij aveva formulato il concetto di ‘grande reale’, opposto e complementare all’astrazione. Non realismo, ma una realtà potenziata, di apparenza fantastica, la «riassimilazione di una realtà perduta nell’epoca della dissoluzione delle forme», secondo la definizione di Bertrand Lorquin nel saggio su Bauchant all’interno del catalogue raisonné uscito, a firma Dina Vierny, nel 2005 (edizioni Benteli). Sempre Lorquin ha suggerito che il tandem Le Corbusier-Bauchant debba essere inteso come una riedizione del Kandinskij-Rousseau. Ma non era la concordanza con le ragioni dell’avanguardia a sollecitare l’interesse di Uhde verso Rousseau e i suoi eredi. Spirito filosofico di stampo platonico, asseveratore, nell’epoca dei sanguinosi nazionalismi, di un’unità culturale europea fondata sull’incontro fra lo spirito greco-tedesco e romano-francese, egli rifugge l’ottica formalista e vede negli adorati primitivi dei suoi giorni, che non amava definire naïfs, le più intense proiezioni pittoriche di quel che definisce supra verum. Forse con un eccesso di trasporto umanistico, egli vede in queste esperienze una forma di candore immemore di ogni tradizione, un vero e proprio rinverginamento: le stacca dalla scena corrente, affiancandole, in Picasso et la tradition française (1928), agli esiti più alti dello sperimentalismo modernista. La prospettiva idealistica, che può velare a tratti il giudizio di qualità, è del resto comprensiva dello stesso cubismo da parte dell’uomo di cui si ricorda il superbo ritratto ‘analitico’, di severità ‘gotica’, che gli dedicò Picasso nel 1910.
Quanto a Bauchant, Uhde è attratto dalla singolarità del paysan – «un paysan de Giono» – che fantastica sull’Antico attraverso non un contatto diretto, medianico, con «les divinités chtoniennes», ma la mediazione letteraria del neofita divoratore di libri. Un fascinoso détournement: proprio lì dove ci aspetteremmo l’immagine pristina, sufficientemente spoglia di determinazioni culturali, ecco riemergere, quale principio ispiratore, il libro. E il libro come racconto: il mondo greco-romano – ma anche biblico, e nazionale francese (Vercingetorige, Luigi XI, Giovanna d’Arco) – è per Bauchant una miniera novellistica, egli è un Apuleio illetterato che dipinge meticolosamente srotolando dinanzi all’uditorio rapito episodi pungenti e aneddoti curiosi. Quanto di più lontano dalla tragedia: «il sangue che fa colare non è nero come quello di Agamennone, ma pallido, e non ci spaventa troppo» (Uhde).
I «legni» di Ulisse e il fiume dell’odio
L’aspetto favolistico è sovrapposto a un senso assoluto della luce e degli elementi, che suggerì a Pierre Courthion l’immagine «della creazione, inondata dal primo sole, avanti la comparsa dell’uomo». Il Mediterraneo solcato dai legni di Ulisse, nella compatta profondità dei blu verdastri, è totalmente deserto, ha del preistorico. Fra i must di Bauchant è il grigio cenere delle rocce spugnose, entro cui è incassato, in uno dei suoi capolavori, il fiume dell’odio, lo Stige. Le azioni umane, più o meno eroiche, sembrano incollate sopra il paesaggio senza tempo, che risucchia. Nei paesaggi di campagna, una produzione ben più abbondante della storico-mitologica, questa aporia è perfino più evidente: l’incontro dei due fidanzati, o delle due amiche, è contrastato, nella sua simpatica ferialità, dalla natura immobile e vertiginosa. I personaggi restano appesi nello stupore, con la loro fragile gaucherie.
Maximilien Gauthier, autore nel 1943 di una bellissima monografia di Bauchant (precede quella, 1998, di Dina Vierny e Bertrand Lorquin), trasferì nella descrizione di una scena di vita condivisa con il pittore questo suo modo sur-réel (Apollinaire) di rappresentare il trascendente giustapposto al quotidiano: «Era all’inizio dell’estate scorsa. Avevamo convenuto, io e Bauchant, di andare a piedi, per la campagna, dalla dimora in cui abita attualmente al suo antico eremitaggio della Blutière. Nel cielo, di un blu luminoso e tenero, delle nuvole galleggiavano tutte bianche, disegnate come isole, placide come marmi; e ce n’erano anche di trasparenti: una leggera velatura, pallida e pomellata, un sottile fumo di sigarette stagnante là in alto».
La foresta della Blutière è dove Bauchant, di ritorno dal fronte, si era stabilito insieme alla moglie Alphonsine, che durante la sua assenza, non avendo retto ai disastri della guerra, era stata internata a Tours. Ma André la volle con sé: «Presi una casa isolata nel bosco. Qui le sue crisi non davano fastidio a nessuno e io mi misi a dipingere. Era l’agosto del 1919». Possiamo immaginare quanto il dipingere fosse psicologicamente e moralmente implicato. Nel 1928 la coppia si trasferì ad Auzouer, in una casa di campagna disegnata e costruita con materiali di recupero dallo stesso Bauchant. È questo il set di un eccezionale servizio fotografico di André Kertész, proprio di quell’anno, che testimonia come l’operare dell’artista fosse intimamente connesso alla rusticità, concreta ma pervasa di sogni, del suo ambiente natale. L’occasione è una visita di Jeanne Bucher, accompagnata da Jean Lurçat: srotolano un’enorme tela davanti all’ingresso; in uno degli scatti essa è abbandonata nell’erba, come un relitto, sotto un albero…
Il 1928 è un anno clou: la personale dalla Bucher viene replicata in grande alla Salle Magellan sugli Champs Elisées. Organizza la mostra, in collaborazione con la gallerista, Serge Diaghilev, che, sorprendentemente, ha chiesto al primitivo della Loira le scenografie e i costumi per il balletto Apollon Musagète, su partitura di Stravinskij, in scena il 12 giugno al teatro Sarah-Bernhardt. La pittura di Bauchant è ormai entrata a pieno titolo nei circuiti sociali dell’avanguardia; diviene un culto collezionistico, che egli sfrutta con la vezzosa furberia campagnard rimarcata da alcune testimonianze. Si incapriccia delle sue opere l’astro della danza – Apollo Musagete – Serge Lifar, che acquista i quattro teleri ispiratori del décor del balletto, poi donati al museo di Hartford, New York.
Il fenomeno dei primitivi moderni si connette storicamente alla riscoperta di altri primitivi, i francesi del Quattrocento, inaugurata dalla grande mostra parigina del 1904. Uhde, dal ’26 di stanza a Chantilly, dove poteva frequentare il Musée Condé, vedeva «affini a Rousseau per spirito e forma espressiva» le miniature dei fratelli Limbourg. Conterraneo di Jean Fouquet, che era di Tours, Bauchant ne condivide, come evidenziato da Pierre Cabanne, la «misura» e l’«armonia» proprie all’orografia delle valli della Loira, punteggiate, in entrambi, dai castelli di pan di zucchero. Un’agnizione condivisa da Dina Vierny, la gallerista, già modella di Maillol, che nei primi anni quaranta «ereditò» Bauchant dalla Bucher, delusa con qualche ragione da una caduta di qualità negli sviluppi del pittore: a sugellare la sua prefazione al catalogue raisonné, la Vierny ha scelto Paysanne au repos sous un arbre, 1944, minuscola tela di spiccate qualità fouquetiane, dalla corposità sintetica che fa monumentale il piccolo alla stessa tavolozza in cui spiccano il rosso e il blu – un’acuta attrattiva sprigiona da questi tableautins.
Dai primitivi francesi la rete delle simpatie di Bauchant si allarga agli italiani, se certi suoi umili e trasparenti fiumicciattoli richiamano Piero della Francesca; se la grassa tattilità e il modo sincopato di raccontare li si può ritrovare simili in qualche predella di senesi; se il vuoto primordiale e la poesia classificatoria ma animistica che descrive minuziosamente la flora e la fauna hanno qualche parentela con Piero di Cosimo. Sì, è in questa «famiglia spirituale», in questa consonanza con certe qualità della pittura quattrocentesca, che meglio si comprende l’opera di Bauchant: estranea, invece, alla categoria di ‘realismo’, entro cui un altro entusiasta dei neoprimitivi, il conservatore del museo di Grenoble Andry-Farcy, volle presentarla nella mostra – tuttavia cruciale come bilancio descrittivo del fenomeno – Les maîtres populaires de la réalité (1937).
La Vergine in rue Nungesser-et-Colis
Dal servizio fotografico di René Burri nell’appartamento parigino di 24, rue Nungesser-et-Colis (1959), sappiamo che Le Corbusier aveva a capo del suo letto la Glorification de la Vierge di Bauchant. Collezionista stupendamente ‘incidentale’, che affiancava a Léger «ossi tranciati dal macellaio o raccolti sulla riva del mare», egli, anche sotto questo profilo, ebbe una fedeltà speciale, a partire dal primo acquisto nel 1921, verso il pittore da lui scoperto.
Alla mostra-consacrazione di Bauchant da Charpentier (1949) c’erano vari quadri della raccolta Le Corbusier, non però il Bouquet Le Corbusier (1927), dove l’architetto, cilindro e bombetta, girella con la moglie Yvonne nel paesaggio roccioso, figurine sovrastate dall’enorme vaso di fiori in un salto di scala abissale, secondo una sigla cara al pittore. In quell’occasione, con una lettera aperta a Bauchant, Corbu confessa di aver saputo solo poco tempo prima, da Gauthier, d’essere stato il suo unico collezionista e sostegno per lunghi anni: «me l’avete nascosto così bene che non potevo immaginare la vostra lotta eroica nella solitudine, tra gli sberleffi del prossimo». Ricorda le visite al pittore in Turenna: «Hé, Bauchant!». Quello si affacciava con la «testa di fauno» e invitava a vedere «ciò che noi abbiamo dipinto», perché «voi vi chiamavate noi»: «Noi abbiamo dei paesaggi di stagione, con le bestie di stagione, la piuma, il pelo di stagione, e anche l’erba, la foglia di stagione… Noi abbiamo dei fiori, dei frutti di stagione… Ecco qualcosa di fine: la ragazzina e il giovane che si incontrano in fondo alla strada, sotto la fustaia… E questi qui bevono alla festa del villaggio. Noi abbiamo dipinto Omero, e qua Apollo che appare ai pastori. Ed ecco Dio e la santa Vergine coronata da Gesù…». «Eravate delizioso, gentile, scaltro, astuto, preciso, conciso e sempre sorridente. Virgiliano».