Nella storia dell’arte non sono rari i casi in cui è stato necessario coniare un nome di comodo per classificare un corpus di opere, raggruppate in quanto stilisticamente coerenti, non essendo possibile individuarne da subito l’artefice. Un esempio che ha attirato un dibattito intenso è quello del cosiddetto Maestro dei Bambini Turbolenti, così battezzato dall’insigne studioso tedesco Wilhelm Bode, cui si deve la più antica proposta di ricostruzione del suo catalogo.
In un articolo del 1890, Bode pubblicò, per la prima volta, alcune figure in terracotta, di piccolo formato e verosimilmente tutte di destinazione domestica, riunendole sotto tale nome, concepito alla luce di due capolavori al tempo noti, raffiguranti una coppia di fanciulli intenti ad accapigliarsi: l’uno nelle collezioni statali berlinesi (di cui lo studioso fu direttore), conservato nell’allora Kaiser Friedrich Museum, oggi Bode Museum, e l’altro al Victoria and Albert Museum di Londra.
Nel corso del Novecento, e fino a tempi più moderni, si è assistito a un’incredibile crescita degli interventi sull’artista, e il libro di Lorenzo Principi – Il Maestro dei bambini turbolenti Sandro di Lorenzo scultore in terracotta agli albori della Maniera –, in quanto primo studio di respiro monografico, uscito per la casa editrice perugina Aguaplano (pp. 504, euro 80,00), rappresenta, pertanto, un contributo importante entro la vasta letteratura sul tema.
L’avvincente storia critica intorno al maestro è ripercorsa in più punti. Il suo avvio, come detto, è costituito dal pionieristico intervento di Bode, che aveva inizialmente considerato l’artista un allievo di Donatello, vissuto verso la metà del Quattrocento. Già nel 1903, Paul Schubring proponeva però, giustamente, di riconoscere in queste opere la mano di un fiorentino del primo Cinquecento, come confermano i debiti segnalati dalla critica successiva verso le coeve invenzioni di Leonardo e di Michelangelo. Nel corso del XX secolo, si sono quindi contesi la paternità di tali pezzi nomi illustri come Jacopo Sansovino, Zaccaria Zacchi e Pietro Torrigiani, evocati per l’eccezionalità qualitativa che è sempre stata riconosciuta a tali oggetti, considerati non meno interessanti per la varietà dei soggetti. Accanto a temi profani, in cui rientrano i celebri Putti in lotta, per i quali il maestro è stato per tanto tempo noto, ma anche Divinità fluviali, immagini di Bacco e Battaglie di cavalieri, si distingue pure un corposo nucleo di opere sacre, comprendenti Madonne col Bambino e personificazioni della Carità. Gli scontri di uomini e cavalli appaiono come la versione tridimensionale della perduta Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo a Palazzo Vecchio, che dovette folgorare il plasticatore con quell’intreccio violento di corpi, mentre nelle immagini di Bacco e dei Fiumi, con le loro pose semisdraiate e le anatomie muscolose, è chiara la derivazione dalle figure marmoree di Buonarroti per la Sagrestia Nuova.
Un documento del 1523, scoperto alla fine degli anni novanta, in cui si citavano alcune terrecotte a opera di tale Sandro di Lorenzo (1483-1554), ha fornito agli specialisti la prima traccia per risolvere la questione. Una delle figure menzionate in queste carte, un «Bacho» descritto di ridotte dimensioni e «a diacere et posasi in sun una bocte», è stato infatti collegato a terrecotte di tale soggetto attribuite al Maestro dei Bambini Turbolenti, a partire da quella più nota del Detroit Institute of Arts. Il rinvenimento di ulteriori fonti e documenti d’archivio, questi interamente registrati nell’appendice del volume curata da Davide Gambino, ha comunque dissipato, in maniera pressoché definitiva, ogni dubbio intorno all’identificazione dell’artista con tale Sandro.
Tra queste prove si deve citare un curioso passo in un testo degli anni trenta del XVI secolo, scritto da Anton Francesco Grazzini, detto Lasca, nel quale la parte finale, quella di nostro interesse, è un elogio alle salsicce prodotte a Firenze. Per illustrare la scarsa qualità degli insaccati mangiabili in altre parti d’Italia, l’autore affermava che questi erano confezionati con un miscuglio tale di ingredienti che ricordava la caoticità rappresentata in certe Battaglie di cavalieri fittili, corrispondenti dalle descrizioni a quelle del nostro maestro. A detta di Lasca, queste composizioni erano visibili in due botteghe fiorentine, una «là da San Giovanni» e un’altra «nel Garbo» al tempo appartenente a «Verrocchio», che Principi ha dimostrato essere entrambe legate a Sandro: questi fu infatti il proprietario di un laboratorio nella piazza di San Giovanni e il precedente possessore di quello al Garbo, allora ricordato sotto la direzione del nipote di Verrocchio. L’indagine su tale plasticatore ha permesso allo studioso di giungere anche ad altre notevoli acquisizioni, come il riconoscimento del «getto di terra cotta» del volto del beato Filippo Benizi, eseguito nel 1521, in un simulacro del personaggio presso la basilica dell’Annunziata a Firenze, opera che, oltretutto, a oggi rappresenta l’unica testimonianza superstite di un settore in cui Sandro si specializzò, quello delle maschere funerarie, e che rende conto della sua versatilità pure in ambiti artigianali, sempre riguardanti manufatti non di grandi dimensioni.
L’attenzione con cui è affrontata l’analisi visiva di ogni singolo pezzo è comunque il maggiore punto di forza del libro. Come afferma Principi nelle pagine introduttive, la connoisseurship è il motore alla base della sua ricerca. Il catalogo ragionato delle opere, comprendente non solo quelle certe, ma anche quelle rifiutate, permette di misurare più concretamente il lavoro condotto dallo studioso, cui si devono non solo la riconferma di oggetti entrati da tempo nel catalogo e l’addizione di nuovi, ma anche l’esclusione di proposte passate, ugualmente motivata sulla base di confronti formali.
Le pose febbrili delle figure, spesso rappresentate in gruppi strettamente avvinghiati, e il modellato vorticoso sono gli aspetti di maggiore peculiarità dell’artista. Attraverso le dettagliate argomentazioni stilistiche si comprendono quindi le molte novità attributive del volume, tra cui, una delle più interessanti, un gruppo del Metropolitan Museum of Art di New York, rappresentante un Sileno su un asino tra fanciulli, opera in cui emerge con evidenza la particolare vena espressiva del maestro, tale da renderlo tra gli interpreti più «eccentrici» della scena artistica fiorentina del tempo. Ancora molto accattivante è, in effetti, il paragone avanzato da Massimo Ferretti quasi trent’anni fa, nel 1992, col pittore Giovanni Larciani, già denominato Maestro dei Paesaggi Kress da Federico Zeri, cui si deve la prima ricomposizione del suo catalogo: altro originale esponente della «maniera moderna» toscana.