La Giordania ha chiuso confini già chiusi: ieri il ministro degli Esteri, Ayman Safadi, ha confermato che Amman non riaprirà le frontiere con la Siria, serrate esattamente due anni fa quando un attentato colpì un posto di blocco dell’esercito giordano vicino al campo profughi informale di Rukban.

Un campo che è un inferno: nella terra di nessuno tra Siria e Giordania, è diventato residenza obbligata per 75mila rifugiati siriani. Fino a qualche mese fa: le condizioni di vita terribili (che divennero gravissima emergenza umanitaria nel giugno 2016 quando Amman impedì alle organizzazioni umanitarie di raggiungerlo) hanno spinto centinaia di loro a tornare a Damasco.

Ma ora la fuga verso la Giordania è ripresa, stavolta non verso oriente ma verso sud: a Daraa da dieci giorni sono ripresi durissimi scontri tra l’esercito governativo siriano e le milizie islamiste di opposizione arroccate a sud.

Almeno 45mila, secondo le Nazioni unite, le persone che stanno fuggendo per ritrovarsi intrappolate al confine. Perché Amman, che dal 2011 ospita oltre 650mila rifugiati siriani, non intende accoglierne altri. Persone che per lo più (l’80%) vivono al di fuori dei campi semi-militarizzati messi in piedi dalla monarchia e gestiti dalle organizzazioni internazionali e che hanno avuto un significativo impatto sul già fragile equilibrio socio-economico giordano.

Dall’altra parte l’esercito siriano ha ripreso ieri due città e lanciato l’offensiva finale sul capoluogo, iniziata già un anno fa ma che da dieci giorni si è intensificata: con la provincia nord-ovest di Idlib, le aree di Daraa e Quneitra sono ancora controllate da islamisti e da milizie legate all’Esercito Libero Siriano, a cui nei giorni scorsi gli Stati uniti hanno fatto sapere che non invieranno aiuti militari.

Al timore per la sorte dei civili (750mila persone quelle residenti) dà voce l’Onu: «Negli ultimi due giorni abbiamo assistito alla fuga di un grande numero di persone – ha spiegato Linda Tom, portavoce dell’agenzia Ocha – Non avevamo mai visto uno sfollamento di queste dimensioni a Daraa». Una zona geograficamente strategica, nel triangolo di terre tra Siria, Giordania e Golan occupato da Israele.

Proprio ieri Tel Aviv si è di nuovo fatta viva con due missili lanciati vicino l’aeroporto internazionale di Damasco. A renderlo noto è stata per prima la tv di Stato Sana, seguita da fonti delle opposizioni. Lo Stato ebraico, come sempre, non conferma né smentisce ma l’operazione rientra a pieno titolo nell’escalation nell’intervento bellico israeliano nella vicina Siria.

Se fin dall’inizio della guerra Israele ha preso parte al conflitto con sostegno ai gruppi di opposizione e azioni dell’aviazione, è nel corso dell’ultimo anno che ha intensificato gli interventi, da Damasco fino al più recente bombardamento al confine con l’Iraq, forte dell’indefesso sostegno dell’amministrazione Trump e delle sue dichiarate posizioni anti-iraniane.