Naven è uno di quei termini indigeni – come mana, potlach o hau – divenuti famosi in antropologia perché, pur provenendo da una singola e specifica cultura, hanno finito per essere usati come concetti generali. Così il mana definisce una forza mistica impersonale, il potlach una forma di dono dissipativo, lo hau lo «spirito della cosa donata». In quanto al naven, si tratta di un rito di travestismo (gli uomini si vestono da donna, le donne da uomo) che celebra il primo compimento di un’impresa importante da parte di una ragazza o un ragazzo. Lo ha studiato negli anni ’30 del Novecento Gregory Bateson, nel quadro della sua ricerca etnografica tra gli Iatmul, una piccola etnia di ex tagliatori di teste della Nuova Guinea, il cui rito ha dato il titolo al testo da lui pubblicato nel 1936, poi in una seconda edizione nel 1958: un classico dell’antropologia, sebbene anomalo, scritto nell’epoca d’oro delle etnografie funzionaliste, ma decisamente estraneo alle regole del genere: Naven Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, già pubblicato nel 1988 nelle Microstorie Einaudi, viene oggi riproposto da Raffaello Cortina nella stessa traduzione (di B. Fiore Cardona, con prefazione di Gaetano Mangiameli, pp. 324, € 28,00). Di quel rituale Bateson cerca di comprendere la grammatica interna, centrata sul rapporto tra un ragazzo non ancora iniziato e lo zio materno, che vestendosi da donna mette in scena comportamenti esibizionisti e grotteschi, culminanti in allusioni sessuali. Le parenti donne si vestono invece da uomo e picchiano il ragazzo, simulando la severità paterna.  Il rito mette in scena, invertendola, questa struttura della parentela, e al tempo stesso evoca, anch’esse invertite ed esagerate in modo caricaturale, le emozioni assegnate al genere maschile e femminile.

È  da subito chiaro come a Bateson (che assistette a rituali maschili e non spiega come essi si svolgano simmetricamente per le ragazze) non interessa soltanto capire lo specifico rito, e neppure risalire da questo agli aspetti più importanti di quella particolare cultura, quanto comprendere la logica dell’azione simbolica, studiandola nel vivo del dettaglio etnografico. Più specificamente, la sua tensione universalista mira a mostrare il simbolismo rituale come un fenomeno psicosociale, ovvero come una cerniera tra biologia umana, comportamento «etologico», struttura sociale e psichismo individuale, nella sua dimensione cognitiva come in quella emotiva. La questione è la stessa che occuperà le fasi successive, più mature e più note, del pensiero di Bateson, facendone il grande ispiratore della psicologia sistemico-relazionale.  Nell’affrontare la dimensione psicosociale, Bateson non si accontentava – come invece la scuola americana di «cultura e personalità» (inclusa la sua prima moglie Margaret Mead) – di affermare relativisticamente l’influenza della società sulla costituzione psichica degli individui. E rifiutava al tempo stesso nozioni troppo incerte e confuse come quella di «pensiero collettivo», introducendo piuttosto concetti quali ethos e eidos, che funzionavano da mediazione fra il piano sociale e quello individuale. Il primo è «il sistema, culturalmente standardizzato, che organizza gli istinti e le emozioni degli individui»; il secondo riguarda l’organizzazione, ugualmente controllata dalla cultura e dalla tradizione, degli «aspetti cognitivi della personalità individuale».

È sullo sfondo delle cornici dell’ethos e dell’eidos che i comportamenti delle persone acquistano significato. In ogni società coesistono e si intrecciano più cornici di questo tipo, che corrispondono a ruoli sociali differenziati. Mentre nelle società moderne o «complesse» appartenenze di classe e di genere, ruoli professionali, livelli di istruzione diversi definiscono peculiari forme di ethos e eidos, nella società iatmul tutto ruota attorno a un’unica grande differenziazione, quella tra il maschile e il femminile. Il naven articola e rende visibile, attraverso l’inversione e l’esagerazione caricaturale, questi riferimenti standardizzati. Permette inoltre di evidenziare una dinamica psicosociale che Bateson chiama «schismogenesi», ovvero  un processo di differenziazione tra individui o gruppi, nel quale ciascuno accentua le proprie peculiarità in reazione agli atteggiamenti dell’altro, con un effetto cumulativo che rischia di condurre, in un circolo vizioso, a situazioni abnormi e patologiche. Il concetto di schismogenesi è forse l’acquisizione più importante del libro, e quella destinata ad avere maggior influenza negli studi successivi, utilizzata volta per volta come chiave di comprensione del conflitto, del disadattamento sociale e di alcune forme di malattia mentale. Il naven appare allora prototipo di un’ampia classe di riti di inversione, che da un lato danno espressione ai diversi e contrapposti ethos, dall’altro tengono sotto controllo gli aspetti più pericolosi del processo schismogenetico.

Guidato dall’esigenza di elaborare una teoria generale del simbolismo, «del processo e del mutamento, dell’adattamento e della patologia», che riguardi tanto noi «moderni» quanto i remoti ed esotici iatmul, Bateson non si dirà però soddisfatto del risultato: nell’epilogo aggiunto alla nuova edizione del 1958 definisce il libro «goffo e ingombrante», e sostiene che negli anni Trenta non c’erano ancora gli strumenti della cibernetica e dalla teoria della comunicazione, che si sarebbero rivelati decisivi. Dopo Naven Bateson non avrebbe in effetti più scritto monografie etnografiche, ma solo saggi di impronta epistemologica, molto più raffinati e ben levigati, ma privi tuttavia di quel magmatico intreccio di materiale etnografico e riflessività epistemologica che costituisce la forza della sua prima opera, riferimento tutt’ora importante per un’antropologia intesa come scienza e non come pura rappresentazione.