Nel suo discorso all’Onu (subito diventato virale in rete), il presidente messicano Enrique Pena Nieto è scivolato sulla parola «multilateralismo», che non riusciva a pronunciare. Stava dicendo che «il multilateralismo è la via più idonea per superare i problemi mondiali». Certo, dal neoliberista Nieto, che sta svendendo il paese alle multinazionali, nessuno avrebbe potuto aspettarsi un messaggio analogo a quello lanciato dalla sua omologa argentina Cristina Kirchner: «Gran parte dei problemi che affliggono il pianeta si devono alla mancanza di una multilateralità effettiva, concreta e democratica» ha detto la presidente all’Onu l’anno scorso. In quella sede e nella 70ma Assemblea, i paesi progressisti dell’America latina hanno avanzato con forza la richiesta di una riforma dell’organismo internazionale e un cambio di paradigma nel Consiglio di sicurezza Onu: per renderlo qualcosa di più che una foglia di fico per coprire interventi militari. Rifondare, insomma, un «multilateralismo» impedito alla nascita dal gioco delle grandi potenze, che usano il diritto di veto come arma da guerra diplomatica: dimenticando proprio i presupposti fondativi della Carta delle Nazioni unite, firmata il 26 giugno 1945 a San Francisco per opporsi alla guerra e obbligare gli stati a risolvere pacificamente i conflitti.

La via della pace deve basarsi sulla forza o sul diritto? La nuova America latina, che scommette sul “socialismo del XXI secolo”, spinge sul secondo aspetto e sta imponendo anche al resto del continente una marcia diversa. Cuba ha chiesto alle Nazioni unite di considerare violazione al diritto internazionale e crimine di lesa umanità l’uso o la minaccia delle armi nucleari, in qualunque circostanza. E’ assurdo – ha detto il ministro degli Esteri Bruno Rodriguez – che mentre si spendono miliardi per seminare morte non si trovino le risorse per combattere la povertà e le malattie. Un’indicazione già espressa, proprio all’Avana dal vertice della Celac, la Comunità dei paesi latinoamericani e caraibici che si è dichiarata «zona di pace». Anche il presidente venezuelano Nicolas Maduro – il cui paese è stato ammesso a stragrande maggioranza fra i cinque membri non permanenti del Consiglio di sicurezza – ha incentrato il suo discorso su temi strutturali: «Se vogliamo costruire una casa comune – ha detto richiamando più volte le parole di papa Bergoglio – dobbiamo pensarla senza guerre imperialiste, senza guerre di distruzione, senza razzismo, senza xenofobia, senza disprezzo, senza disuguaglianze». Per questo, occorre «trasformare il modello economico capitalista, che produce la cultura degli scarti e impone ai popoli condizioni politiche e sociali inaccettabili dettate dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca mondiale». Sulle stesse corde, le parole pronunciate all’Onu dal boliviano Evo Morales e dall’ecuadoriano Rafael Correa.

L’Argentina, che l’anno scorso ha denunciato lo strapotere della finanza e dei fondi avvoltoio, quest’anno ha chiamato in causa le responsabilità dei servizi segreti internazionali nell’attentato alla mutua ebraica di Buenos Aires che, nel 1994, ha provocato 85 morti. Il processo, attualmente in corso, oltre ai numerosi depistaggi ha evidenziato il ruolo della spia Antonio Stiuso: ricercato internazionale e – ha lasciato intendere Kirchner – protetto dagli Usa.

Ma se i paesi progressisti dell’America latina – Brasile in testa – hanno messo in evidenza la necessità che i nuovi obiettivi di sviluppo e i temi dell’ambiente non restino soltanto sulla carta, quelli che scommettono sul neoliberismo e che preferiscono guardare al Nordamerica, hanno utilizzato gli incontri a margine dell’Onu per mettere a punto diverse strategie economiche e commerciali: con la dovuta opacità, che accompagna il Ttip e il suo correlato Transpacifico Tpp. Una grande tessitura internazionale con al centro gli Usa che, per quanto riguarda il Tpp vede impegnati gli Stati uniti con il Messico, il Canada, il Giappone, Singapore e sette altri partner che rappresentano il 40% del mercato mondiale.

Con l’Alleanza del Pacifico, il quartetto costituito da Messico, Colombia, Cile e Perù riporta in forze il neoliberismo nel continente e, al di là delle rassicurazioni da statuto, di fatto si contrappone alle alleanze di segno diverso come l’Alba. Una strategia che imbarazza il Brasile e che tira dentro anche l’Uruguay ora diretto dal più moderato presidente Tabaré Vazquez. Ma intanto, proprio in Uruguay, la mobilitazione popolare ha scongiurato la firma del Tisa, l’Accordo di liberalizzazione del commercio dei servizi spinto dagli Usa nell’ambito del Tpp, e che Vazquez è stato obbligato a ritirare.