Nel 1968, quando ha sette anni, Jean-Michel Basquiat viene investito da un’automobile mentre gioca per strada, e finisce in ospedale. Per distrarlo durante la convalescenza, la mamma gli regala Gray’s Anatomy, un libro di anatomia umana pubblicato nell’ottocento e rimasto un riferimento per i medici: idea alquanto bizzarra, ma in effetti il volume non lascia affatto indifferente il bambino, che, cresciuto, non mancherà di ricordarsene nei suoi quadri. Ma prima di diventare una folgorante cometa nella pittura degli anni ottanta, Basquiat se ne ricorderà quando sceglierà un nome per il gruppo musicale sperimentale a cui contribuisce a dare vita: Gray.
Allestita in collaborazione dal Musée des Beaux-Arts di Montréal e dalla Cité de la Musique – Philharmonie de Paris, dove l’esposizione resterà aperta fino al 30 luglio, Basquiat Soundtracks è una appassionante ricognizione del mondo musicale del grande artista, che ha anche il merito di immergerci in una formidabile stagione di creatività newyorkese – quella fra ultimi anni settanta e anni ottanta – mostrandoci la fitta rete di relazioni fra protagonisti di diversi ambiti espressivi, la fluidità con cui questi ambiti comunicano e con cui i loro protagonisti passano da una pratica espressiva ad un’altra, la pervasività che il fare musica assume in quella scena artistica e la stretta contiguità di diverse forme di innovazione musicale.

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Basquiat, il diario della rabbia blackNEL 1979, quando non ha ancora vent’anni, Basquiat non ha deciso definitivamente in quale direzione investire il suo talento, e la musica è una opzione ancora aperta. Nell’aprile di quell’anno, durante un party in un loft a cui partecipano molti graffitisti, Basquiat traccia alcune domande assurde e le sigla SAMO, seguito dalla c cerchiata di copyright, svelando dunque di essere lui il misterioso autore delle scritte così firmate apparse sui muri della Lower Manhattan e di cui si è occupato anche il Village Voice. Incaricato di filmare la serata, Michael Holman gli fa una strampalata intervista, alla fine della quale i due si accordano… per costituire un gruppo musicale: siamo in una New York fresca delle pulsioni del punk, e che né Basquiat né Holman sappia suonare uno strumento non è un ostacolo, anzi.
Debuttano nell’autunno ‘79, presentandosi col nome di Bad Fools e di Test Pattern, più avanti di Gray. Basquiat è al clarinetto, strumento di cui non padroneggia la tecnica, e si dà da fare con un sintetizzatore; Holman dal canto suo suona la batteria, cosa che non ha mai fatto prima; ci sono inoltre Wayne Clifford al basso e al synth, e Shannon Dawson alla tromba, poi rimpiazzato da Nicholas Taylor alla chitarra: con lo pseudonimo di Nick Nice, Taylor, convertitosi ai piatti dei giradischi, sarà poi un pioniere della scena hip hop. Basquiat è la mente del gruppo, declama testi e utilizza per i pezzi titoli che riprenderà poi per i suoi quadri. In Gray è rilevante la dimensione del gesto artistico: Arto Lindsay, chitarrista al vetriolo di due gruppi che fanno epoca come Dna e Lounge Lizards, testimonierà di avere condiviso con Basquiat la passione per le esperienze più radicali della storia dell’avanguardia, da Dada al free jazz, e parlerà con entusiasmo della musica fuori dagli schemi, imprevedibile, di Gray; Basquiat dirà in seguito che era ispirato da John Cage e che non voleva fare della musica vera e propria.
Ma intanto nel corso dell’80 Gray ha un’attività intensa e in molti locali della scena Downtown divide serate appunto con Dna e Lounge Lizards. Fa effetto vedere nella mostra pagine di un carnet di testi e disegni regalato da Basquiat a Lindsay nell’81 e scoprire che Basquiat per un periodo aveva abitato con lui; e che era stato spesso ospitato da John Lurie, a cui nell’82 dedica un triplo ritratto: sassofonista e leader dei Lounge Lizards (e più tardi attore fra l’altro con Jarmush) Lurie era anche pittore. Assieme a molti altri artisti, Lurie compare significativamente anche in una foto di gruppo esposta alla magnifica mostra Basquiat x Warhol. Paintings Four Hands, sulla collaborazione a quattro mani fra questi due emblematici protagonisti delle arti figurative della seconda metà del Novecento, aperta alla Fondation Vuitton fino al 28 agosto.

Jean-Michel Basquiat dj all’Area Club, 1984, foto di Ben Buchanan

GRAY però non sfonda, e Basquiat arriva alla conclusione che nella pittura potrà andargli meglio che nella musica. Gray si scioglie, ahimé senza lasciare nessun documento sonoro.
La musica però rimane presentissima nella breve vita di Basquiat e nella sua produzione. Basquiat è un adolescente nella New York in cui dilagano i graffiti e la pittura aerosol, e un ventenne nel passaggio fra anni settanta e ottanta, quando emergono il rap e il movimento hip hop. Nella sua instancabile vita notturna, Basquiat frequenta serate di Afrika Bambaataa e dell’ex Gray Nick Nice, e stringe amicizia con personaggi come Fab 5 Freddy, esponente della scena dei graffiti, e come Rammellzee, teorico dei graffiti e rapper. Nell’81 Basquiat impersona Grandmaster Flash (che non poteva essere presente alle riprese) nel clip di Rapture di Blondie, precoce esempio di convergenza delle culture new wave e hip hop. Nell’82 organizza un party allo Squat Theatre con rap, graffiti e break dance, destinato a promuovere Rammellzee. Dell’83 è l’unico tentativo riuscito di Basquiat di pubblicare una creazione sonora, la decina di minuti del maxi 45 giri Beat Bop, con Rammellzee e K-Rob, di cui Basquiat figura come produttore, oltre ad essere accreditato alla batteria elettronica e al missaggio, e di cui disegna la copertina bianco su nero: la diffusione del disco è limitatissima, ma oggi Beat Bop figura nella lista dei «100 più grandi brani hip hop» stilata da Rolling Stone. Ma soprattutto è profonda l’affinità tra alcuni stilemi della pittura di Basquiat, come l’utilizzo di fotocopie, la ripetizione di elementi, la creazione di un ritmo visivo, con l’hip hop e la cultura del campionamento.

MA I FOGLI incollati sulla tela possono anche servire a suggerire visivamente un assolo di Charlie Parker. Come l’esposizione mostra, il jazz è la musica più presente, a vari livelli, nell’opera di Basquiat. Un filmato ce lo fa vedere mentre nel suo atelier balla e dipinge ascoltando jazz. Un dispositivo tattile consente di riconoscere l’origine degli elementi che costituiscono King Zulu, importante quadro dell’86, in alcune foto contenute in un libro sulla storia del jazz classico. Nei quadri i riferimenti a protagonisti del bebop come Charlie Parker, ma anche di generazioni precedenti come gli amati Fats Waller e Lester Young, a titoli di brani, a estremi di specifiche incisioni, sono continui.
Può colpire che Basquiat guardi non all’avanguardia jazzistica a lui contemporanea, ma a grandi figure del passato. Non è solo questione di predilezioni: Basquiat vuole radicare il suo lavoro in una genealogia, vedersi come l’erede di altri afroamericani, di altri outsider, che con la forza della loro arte hanno sfidato le convenzioni e il razzismo. Alla sua morte, nell’88, Basquiat lascia una collezione di più di tremila album, fra rock, jazz, hip hop, reggae, blues, soul, classica e opera.