Con in mente il numero di gennaio 1983 dell’informatissima «Interview» warholiana, Diego Cortez – fra i primi curatori a appassionarsi nel panorama newyorkese al lavoro di Jean-Michel Basquiat – fu capace di orchestrare una sensazionale trovata pubblicitaria, utile per irrobustire la fama del pittore in un passaggio delicato della sua carriera.
Dietro infatti alla coloratissima copertina costruita attorno al viso angelico di Sting, pronto per le squisitezze fantascientifiche di Dune, Cortez riuscì a inserire – come illustrazione alla chiacchiera tagliente fra l’artista e l’autorevole Henry Geldzahler – lo scatto eseguito da un mito della fotografia statunitense, James Van Der Zee, uno dei ritratti realizzati per accompagnare quel testo d’occasione. Questi – nato nel 1886 – aveva all’epoca poco più di novant’anni e si vide confrontato con il giovane smilzo, i rasta selvaggi a corona del volto, che alcuni mesi prima René Ricard aveva definito «The Radiant Child» in un titolo a effetto su «Artforum».
Fra i grandi vecchi dell’olimpo black nutritosi nella lotta per i diritti civili, attivo dall’alba del secolo nelle strade di Harlem, Van Der Zee aveva cioè acconsentito a ritrarre l’enfant prodige al centro oramai di quella stessa scena, un ragazzo d’origini per metà haitiane, per metà portoricane, che – abbandonato il nom de plume di SAMO – aveva fatto il suo debutto nel mondo popoloso del Lower East Side, integrandosi – non senza contraddizioni – in una comunità informale e agonistica, retta per lo più da una pallida compattezza razziale.
L’immagine, pensosa e sfuggente, è forse la più elusiva fra quelle ottenute nel corso di una seduta in grado di avvicinare, seppur per un breve istante, profili destinati a far parte di un canone comune di personalità e opere; e se nel negare lo sguardo all’obiettivo, Basquiat appare vittima di un timore reverenziale in presenza di una leggenda della cultura afro-americana, l’ambiente predisposto per le fotografie, il flou ‘pittoricista’ che attanaglia la nervosa silhouette del graffitaro ancora imberbe risplendono come un omaggio dichiarato ad altri tempi, quelli di un Rinascimento negro abile nel coniugare avanguardia ed eleganza in chiave di dolente sprezzatura.
In un’epoca in cui le lussuose varianti del déco si associavano allo sfarzo hollywoodiano della tracotanza yuppie, il severo armamentario di una galleria del genere – lo scranno ingombrante, un siamese araldico, le tende pesanti di un set artificiale – dissuona del resto dall’impianto di un’opulenta apoteosi; e anzi per via di analogia suggerisce piuttosto le note profonde di un blues malinconico, suonato – fuori cornice – dietro alle quinte in cartapesta predisposte dal fotografo: una sorta di languorosa attualizzazione della sentimentalità diffusa nel capolavoro approntato da Van Der Zee solo cinque anni prima, quel Libro dei morti, geograficamente localizzato fra Central Park e la 155esima strada, che raccoglieva campagne condotte dal terzo decennio del Novecento, per documentare i rituali funebri (e il desiderio di vita) di un’intera popolazione.
Spiace allora che nella mostra allestita al Guggenheim di New York (Defacement: The Untold Story, fino al 6 novembre) manchi l’eco di un simile incontro; eco che si sarebbe potuta generare anche solo attraverso l’omaggio offerto dal pittore a un padre tanto nobile, e cioè l’icona bruna siglata «VNDRZ» di proprietà della Tony Shafrazi Gallery: perché l’esposizione, curata da Chaédria La Bouvier con acume e intelligenza, si focalizza sul medesimo anno, il 1983, e sul tema dell’eroicità, della dissipazione del black body, sulla sensibile risposta orchestrata da Basquiat di fronte alla perdita di una vita acerba, nei riguardi della violenza, dell’odio alla base di un tale lutto.
L’evento del Guggenheim ritesse queste trame nella scelta, perseguita con coerenza, di raccontare la storia di un unico quadro: al centro del progetto sta l’opera ¿Defacimento? (Defacement), fra le realizzazioni più segrete dell’artista. Tracciato su una delle pareti nello studio di Keith Haring nel Cable Building, il sommesso interrogativo si era configurato come un memoriale, nei giorni appena susseguenti all’aggressione subita il 15 settembre da Michael Stewart, giovane di colore inserito nello stesso ambiente creativo frequentato da Basquiat, morto poi in un letto d’ospedale meno di quindici giorni dopo, il 28 dello stesso mese, per le ferite riportate nel suo scontro drammatico con la Transit Police lungo i binari di una delle stazioni della L, metro lanciata oltre l’East River verso Brooklyn. L’intimo murale – delle dimensioni della Gioconda ma sviluppato in orizzontale – descrive la sagoma nera di un essere privo di braccia, di piedi e di occhi, la nuca cinta da un’aureola o una corona di spine (segno ricorrente nell’alfabeto organico eletto dall’artista), stretto – a destra e a sinistra – da una coppia di gendarmi grotteschi, sul cappello le stelle di sceriffi di un West da fumetto, i volti – accesi da un rosa ebbro – contorti in smorfie porcine. Un’analoga struttura appare già adottata in prove impegnative come Acque Pericolose (del 1981): e tuttavia, in questa contrastatissima lamentatio, la violenta paratatticità attinge a un profondo universalismo, persa sullo sfondo di un chiarore inquietante. L’intera scena sembra infatti invasa dall’evidenza intelligibile di una luce zenitale, in contrasto con la notte di misteri e depistaggi toccata in sorte a Michael, durante e dopo il suo assassinio.
Proprio per la sua icasticità, non stupisce che il sofferto martirologio trasmigrasse dal muro su cui era stato realizzato al momento dell’abbandono da parte di Haring di quegli spazi fra Broadway e Houston Street, per finire – arricchito da una cornice di gusto barocco – sopra la testata del letto, nell’appartamento del Greenwich Village, in cui il pittore sarebbe morto di AIDS nel febbraio 1990: come se quel simbolo di afflizioni potesse testimoniare di altre sofferenze, di differenti strazi del corpo e dell’animo. D’altronde, ricordi consonanti – da quelli di Andy Warhol a quelli di George Condo, da quelli di Suzanna Mallouk a quelli di Fred Brathwaite – certificano di quanto la notizia dell’orribile omicidio (ancora oggi senza colpevoli per la legge americana) avesse colpito in particolare Basquiat nelle forme di un sinistro senso di colpa del sopravvissuto; come se la fine ingiusta del collega debuttante, nella cieca furia del destino e per la sofferenza secolare dell’umanità nera, lo riguardasse personalmente, sotto la forma di una maledizione e di una profezia.
Una simile consapevolezza giustifica la clarté raggelata del suo monumento, privo della retorica enfatica di un’urgenza ‘di lotta’ e carico, semmai, dello sconcerto furioso generato da un’eterna ingiustizia, da una catena interminabile di sopraffazioni: ed è allora tanto più significativo che davanti a un simbolo così assoluto, la mostra scelga comunque di ricostruire un identikit di Michael Stewart, soffermandosi sulla sua età verde. Per questo, nel percorso si moltiplicano ephemera e opere (di David Wojnarowicz, di David Hammonds, di Haring e Condo, fra gli altri) a restituirne i lineamenti; e in catalogo – un occhio all’oral history – si accumulano i dettagli della sua esistenza, narrati da chi ebbe modo di conoscerlo: un modo emozionante di arricchire il ritratto di quel ventenne, che balla concentrato al minuto 1:53 del video Everybody di Madonna; una maniera sommessa di restituire carne a una figura che in quegli anni divenne «a bright symbol of the difference between innocence and power».