Si guardano. La prima cerca di dire qualcosa alla seconda, invano. Ma non è un problema, c’è modo per capirsi e parlarsi l’una con l’altra. In qualche secondo l’impotenza di non conoscere la lingua araba si scioglie come neve al sole. Non serve. All’attimo di esitazione segue una risata prorompente di ambedue e i gesti raccontano molto più di tante parole non dette. L’esperta cestista dell’Atletico San Lorenzo si posiziona in modo corretto davanti al canestro, esortando la giovane collega dello Shatila Basketball Girls a fare altrettanto. Tutto questo va in scena in una calda domenica di maggio a Roma, lungo la consolare via Prenestina all’interno dello Csoa Ex Snia, dove fa bella mostra di sé il frequentatissimo basket playground. Nel quale per tutta la giornata si svolge l’ultimo degli appuntamenti di Basket Beats Borders, vale a dire una cinque giorni di incontri in cui la squadra femminile di basket facente parte della polisportiva Real Palestine Youth F.C. di stanza nel campo profughi di Shatila in Libano, ha incrociato tra allenamenti e tornei di street basket le compagini delle All Reds, dell’Atletico San Lorenzo e del Lokomotiv Prenestino. L’idea del meeting sportivo è nata ad inizio 2017 tra Beirut e Roma, grazie ad un gruppo di ragazzi che di concerto con Majdi, coach della squadra palestinese, ha immaginato fosse possibile far viaggiare otto giovani donne tra i sedici e i venti anni dal campo profughi in direzione dell’Urbe, con lo scopo di farle incontrare grazie alla comune passione per la palla a spicchi. Un progetto importante che imperniato sulle attività sportive, ha permesso di raccontare la quotidianità difficile di quei luoghi, grazie anche ad un serie di incontri e dibattiti aperti alla cittadinanza che hanno inframezzato le attività della delegazione palestinese.

Tante storie quindi, dietro il gesto sportivo, di cui protagoniste indiscusse sono state le adolescenti e le ragazze di Shatila, sia in campo che fuori. Nelle due giornate interamente dedicate ai tornei quattro contro quattro e tre contro tre, le giocatrici palestinesi e romane si sono mescolate di continuo, in una serie infinità di match decisamente agguerriti e divertenti, durante i quali le barriere linguistiche sono state abbattute in un attimo, grazie al comune intento di portare il proprio team in finale. Le esperienze di condivisione sono proseguite anche al di fuori del playground, con alcune esponenti dell’Atletico San Lorenzo che hanno accompagnato le Shatila Girls alla scoperta della città. Uno scambio prezioso da ambedue le parti, come sottolinea il capitano della squadra romana, Maria Luisa Russo: “Questa è per il nostro club un’esperienza speciale. Al loro arrivo eravamo tutte ad attenderle in campo, per il primo allenamento insieme.

Vedendole, ho provato una forte emozione, nessuna di noi sapeva bene cosa dire e come fare per accoglierle nel modo più giusto..ma è bastato avvicinarsi, rivolgere un semplice saluto…e poi i loro sorrisi e il campo da basket hanno fatto il resto. In questi giorni abbiamo avuto tante occasioni per stare insieme. La cosa che mi ha colpito di più è stata la loro energia e voglia di giocare e dare il meglio in campo. In alcuni momenti mi hanno fatto ripensare a quando anche io, a quindici anni, iniziavo ad appassionarmi alla palla a spicchi: non vedevo l’ora di mettermi le scarpette e iniziare a tirare…l’odore della palestra, le voci e le risate delle compagne di squadra, una di quelle magie che inizi a vivere negli spogliatoi che sei una ragazzina e poi ti porti per sempre con te, anche oggi, da donna adulta…le guardavo e rivedevo in loro la scoperta di quella stessa magia…e questa cosa ci ha reso ancora più simili e vicine, abbattendo ancora con più forza i nostri confini.”. In un’epoca in cui barriere e muri proliferano sempre più, in cui la fortezza Europa giustifica ulteriormente questo denigratorio appellativo conferitole da tempo, lo sport sembra volare leggero oltre limitazioni di ogni tipo. Lungi da ogni retorica, le emozioni raccontate dalla Russo riassumono egregiamente l’ottima atmosfera percepita durante le giornate di Basket Beat Borders.

Anche da parte delle ragazze palestinesi. Wafaa ha diciassette anni, un atletismo non da poco e una folta chioma che tenere buona mentre guizza in campo le è davvero difficile. Tra una partita e l’altra trova il tempo per raccontare la sua esperienza: “Ho iniziato a giocare a basket da bambina, vedendo ragazze e ragazzi più grandi di me fare questo sport. Spesso giocavo anche con i maschi, perchè non c’erano molte ragazze che praticavano questo sport.”. Ultima nata di una famiglia composta da tre sorelle e un fratello, Wafaa trascorre la sua giornata nel campo profughi dividendosi tra i lavori di casa a cui si dedica assieme alla madre e alle sorelle, le uscite con le amiche e le immancabili partite. La scuola, abbandonata due anni fa, è oramai un ricordo lontano. Ci racconta ancora che le piace Roma: “..Non è come Shatila, dove ci sono tante cose che non vanno bene. Le strade sono messe male e tutto è troppo insicuro. Non come qui, dove le cose mi sembrano più tranquille. Ad esempio siamo state accolte benissimo, come se ci conoscessimo tutte da tanto tempo. Giocare qui a pallacanestro ci è molto utile: incontrare donne più grandi e più brave di noi ci permette di prendere più sicurezza con noi stesse.” D’altronde le Shatila Girls non hanno possibilità di giocare con altre squadre femminili, in quanto nei campi profughi altri team omologhi non ve ne sono.

Neanche le infrastrutture sono le stesse ed ha proposito di playground, i campi da quelle parti sono ben lontani da somigliare alle nostre strutture sportive. Eppure, non ci si ferma. Una soluzione si trova. Come testimonia anche Bajah, che di anni ne ha diciannove. “Non c’erano i campi da dove vengo io, quindi con gli amici si giocava in strada. Prima di giocare nel Real Palestine facevo atletica, poi un bel giorno il coach mi ha visto e mi ha invitato a entrare nella squadra. A casa nostra lo sport è una cosa importante: ho seguito mio fratello nella corsa. Ho giocato anche a pallavolo.” La quotidianità di Bajah è scandita dallo studio e dallo sport, in quanto da poco si è iscritta all’università: “Alterno gli allenamenti di basket a quelli di atletica. La corsa mi piace moltissimo! Mi fa stare bene. Ho fatto tante gare di mezzofondo e fondo e ne ho vinte anche alcune. Grazie alla famiglia lo sport è stato sempre al centro dei miei interessi. Da grande vorrei fare l’allenatrice e poi la giornalista sportiva. Voglio dirvi anche che stare qui questi giorni per me è stata un’opportunità meravigliosa, perchè sto incontrando tanta gente nuova.” Bajah ha uno sguardo intelligente e veloce, dialoga in inglese e palesa una personalità maggiore rispetto alle sue compagne di squadra per ovvi motivi anagrafici. In campo si fa valere e anche fuori, cerca il dialogo e il contatto con le altre giocatrici. Prima d’involarsi nuovamente nel playground, le chiediamo se c’è qualcosa di simile tra la pallacanestro al di qua e al di là del Mediterraneo. Risponde, con un sorriso: “Certo! Lo senti il rumore della palla? E’ lo stesso!”.