Era sembrato per un attimo che il lancio di missili nel teatro di guerra siriano desse una accelerata ai ritmi della crisi di governo.

Ma è subito ritornata la calma. Resta la paterna sollecitazione di Mattarella a dare al paese un governo nella pienezza dei poteri.

Ma, alla fine, non abbiamo già un governo? Gentiloni è rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, che comprendono – formula cara ai costituzionalisti- ciò che qualunque governo potrebbe fare a prescindere dal colore politico. Dunque, le questioni che non implicano scelte di indirizzo di governo.

Ma il punto è che si aggiunge un’area grigia che comprende le questioni assoggettate a termini di scadenza inderogabili, e più genericamente connotate da urgenze indifferibili. Ad esempio, un decreto delegato viene adottato perché diversamente scadrebbe il termine per l’esercizio della delega.

O un Def viene presentato per la tempistica imposta dall’Europa. O magari si decide se concedere o meno l’uso delle basi per l’attacco in Siria, per l’urgenza posta dalle circostanze.

Questa area grigia può espandersi o restringersi a fisarmonica, per le vicende di volta in volta rilevanti. Ovviamente, buon senso e correttezza politica e istituzionale consigliano al governo in carica a titolo precario di leggerla in modo restrittivo, di essere particolarmente cauto nelle scelte di merito, e comunque di muoversi mantenendo un canale di comunicazione aperto con chi seguirà con pienezza dei poteri.

Un problema può nascere se tra i potenziali interessati non esiste identità di vedute. Nel caso dei missili è accaduto con Berlusconi e Salvini. Comunque, un governo privo di fiducia non potrebbe in modo costituzionalmente corretto assumere decisioni che vincolano il futuro, come ad esempio un cambio di alleanze. Probabilmente, è questo il quadro che Gentiloni esporrà in parlamento.

Si comprende dunque la sollecitazione di Mattarella per un governo nella pienezza dei poteri. Ma la domanda è: il capo dello Stato dispone di strumenti a tal fine decisivi?

Tali non sembrano essere mandati esplorativi o preincarichi comunque configurati. Ad oggi, sembra che ad essi si frapporrebbero gli stessi ostacoli e veti fin qui emersi. In realtà, il capo dello Stato ha già lasciato intravedere quella che secondo un’opinione è l’arma suprema: il governo del terzo.

Ma è davvero suprema? Probabilmente no. Si mostra difficilmente percorribile la via di un premier indicato da Mattarella, ma contornato in tutto o in parte da esponenti delle forze politiche vittoriose.

Piuttosto, si può pensare a un governo del presidente in senso proprio, con la nomina di una personalità di alto profilo accompagnata da tecnici indipendenti, che cerchi i voti in parlamento.

Ipotesi comunque deboli, esposte – in specie la seconda – alla critica di andare contro la volontà popolare espressa il 4 marzo. Con l’aggravante che il tradimento degli elettori verrebbe imputato al capo dello Stato: una situazione non molto diversa da quanto – ad esempio – accadde nel 1994 con la nomina di Dini da parte di Scalfaro.

Altresì, con la prospettiva di una campagna elettorale permanente, sotto minaccia di una sfiducia che renderebbe evidente la mancanza di maggioranze alternative e l’inevitabilità di un ritorno alle urne. Ne sono consapevoli M5S e Lega quando, forti dei sondaggi, dicono no sia ai governoni, sia al governo del terzo.

La vera arma del capo dello Stato – non resistibile, non potendosi nel contesto ipotizzare un diniego di controfirma – è lo scioglimento anticipato. Con questo si porrebbe con chiarezza sulle forze politiche la responsabilità dell’impasse causato dai reciproci veti e condizioni. Il prezzo da pagare potrebbe indurre a smussare angoli e ammorbidire dinieghi.

Ciò non toglie che alcuni terzi – di alta dottrina ed esperienza – siano già in fila, pronti a rispondere a un appello del capo dello Stato.

Anche se questo dovesse assoggettarli alla occhiuta tutela di forze politiche non interessate a garantire lunga vita. Capiamo bene che l’ingegno più acuto può non resistere al fascino del soglio o dell’iscrizione nel libro d’oro dei salvatori della patria. Pur essendo magari la resistenza nell’interesse privato e in quello pubblico.