Sono i giorni più difficili da quando Luigi Di Maio è «capo politico» del Movimento 5 Stelle e da quando ha deciso che doveva andare a tutti i costi al governo.

SABATO SCORSO, nel mezzo delle tensioni sulla finanziaria e sulla perdita di consenso tra i suoi stessi parlamentari e mentre impazzavano le divergenze con il contraente leghista del contratto di governo gialloverde, Di Maio è andato nel trevigiano, a Lovadina di Spresiano. Qui, nel cuore del veneto leghista, ha prima visitato un impianto di trattamento rifiuti e poi ascoltato gli imprenditori, un incontro organizzato da Massimo Colomban, ex assessore a Roma e, da uomo d’azienda, anima liberista del M5S. Qui Di Maio ha annunciato che entro l’anno il governo discuterà l’autonomia del Veneto, in osservanza al referendum consultivo che un anno fa ha visto il M5S schierarsi accanto alla Lega. Pare che l’indicazione di appoggiare l’autonomia, già allora, contraddicesse le inclinazioni della base degli attivisti. E che la forzatura fosse arrivata per iniziativa dei grillini più vicini alla Casaleggio Associati. Insomma, qui sarebbe cominciato il corteggiamento che ha condotto all’alleanza di governo. E qui in Veneto il M5S soffre di una sindrome che dovrebbe rappresentare un segnale di allarme per il M5S nazionale.

Per capire il motivo bisogna leggere un documento che gira tra i grillini veneti, eletti e attivisti. Tabelle e focus sui territori forniscono un quadro spietato del declino in termini di voti e di partecipazione. La decrescita comincia già dalle ultime elezioni politiche. Laddove il M5S trionfò ovunque, in Veneto perse consensi in favore dei futuri alleati della Lega. La tendenza prosegue inesorabile.

La crisi è segnalata alla tornata delle amministrative dello scorso giugno. In quel caso, il segnale divenne ancora più preoccupante perché il M5S non si limita a raccogliere meno voti ma in molti comuni non riesce neppure a comparire con la propria lista. «Ci siamo presentati in appena 10 comuni su 46», constata sommessamente la relazione. Dalla certificazione delle lista negata dai vertici a Vicenza ad una sequela di paesi e cittadine in cui per carenze organizzative, scontri interni o rinunce dei consiglieri comunali uscenti, il M5S si è arreso ancora prima di combattere nella maggior parte dei comuni. «Nel complesso su diciannove portavoce in scadenza nel 2018 ne abbiamo rieletti dieci. Per il secondo anno consecutivo abbiamo dimezzato i consiglieri uscenti», prosegue il bilancio.

Non era affatto d’accordo a sostenere l’autonomia regionale, ad esempio, la consigliera regionale Patrizia Bartelle, che appena qualche giorno fa è uscita dal M5S. Bartelle era in sofferenza da mesi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il codicillo contenuto nel decreto Genova che alza l’asticella dello sversamento nei terreni agricoli dei fanghi di depurazione. Troppo per un M5S che qui ha raccolto molto dai tanti comitati sorti un po’ ovunque per difendere il territorio: dalla Pedemontana all’alta velocità Brescia-Verona, le grandi opere sostenute dalla Lega di Zaia. «Quelli che ci votavano che erano già attratti dalla Lega sono passati direttamente alla Lega – spiega Bartelle – Gli altri, quelli che con la Lega non c’entrano nulla, li abbiamo persi. Si sono illusi potessimo vivere solo di like, solo che abbiamo scoperto che anche la Lega sa usare i social network».

PER BARTELLE, che prima di essere eletta lavorava in polizia, il M5S ha «cambiato pelle» quando è cominciata la campagna per le elezioni politiche. Proprio in Veneto venne fuori che il responsabile per la comunicazione dei grillini in regione dava l’indicazione di «trovare nefandezze e foto imbarazzanti» degli avversari politici. «Fu allora che cominciai a capire che un soggetto che gridava all’onestà e non preservava la sua onestà intellettuale aveva dei problemi».

Prima erano arrivate le nuove regole interne e il nuovo statuto, che concentravano il potere sul capo politico e risolvevano un po’ di questioni legali causate dalle norme in vigore in precedenza. «Quel regolamento tra di noi venne ribattezzato da subito lo Statuto Lanzalone», ricorda Bartelle. Il riferimento, pesante, è a Luca Lanzalone, l’avvocato di fiducia del M5S nominato dalla sindaca Virginia Raggi al vertice di Acea e poi coinvolto nell’inchiesta sullo stadio della Roma. «In quell’occasione accettammo l’inaccettabile – dice ancora Bartelle – Speravamo che sarebbe servito a mandare a Roma le persone giuste. E invece ci siamo trovati con candidature imposte dall’alto. Pare sia quello che avvenga in tutti i partiti: noi abbiamo imparato subito a farlo meglio di altri».

LA SINDROME VENETA del M5S riguarda anche il fatto che tra gli impegni sottoscritti all’accettazione della candidatura c’era quello di tenere assemblee periodiche. L’ultimo incontro pubblico risale a un mese fa. Si è dovuto autoconvocare, qualcuno voleva disconoscerlo, ma la regola è che un’assemblea possa dirsi «ufficiale» se vi partecipa almeno un eletto. In quel caso c’era proprio Bartelle. Che racconta: «Abbiamo fatto discussioni vere, non possono chiederci di andare avanti coi paraocchi solo perché hanno paura». I sondaggi annunciano un crescente travaso di voti dal M5S e Lega. La sindrome veneta potrebbe contagiare il M5S nazionale? L’impressione che circola tra i grillini critici è questa: «Pare che i leghisti ci abbiano usato per rifarsi il look». «Nei territori ci considerano la loro spalla – conferma Bartelle – Con la differenza che loro hanno imparato ad amministrare prima di arrivare nei consigli regionali o in parlamento. Per noi è impossibile».

LA LUNGA MARCIA dentro le istituzioni è impraticabile per un motivo strutturale: il vincolo dei due mandati elettivi, cioè l’unico principio del M5S che ancora sta in piedi e che, giurano gli esponenti di primo piano, non è in discussione. L’esempio più lampante è quello di Alvise Maniero. Nel 2012, quando aveva solo 26 anni, era stato eletto sindaco di Mira, comune di 40 mila abitanti a pochi chilometri da Venezia. Ha amministrato bene, a detta di molti. Ma se si fosse candidato avrebbe sparato la sua ultima cartuccia e perso per sempre, a soli 32 anni, la possibilità di arrivare in parlamento. E così Maniero se n’è andato a Roma, alla camera. E il M5S ha sbaraccato.