La “Psicoenciclopedia possibile” Treccani di Gianfranco Baruchello

Nell’Introduzione alla Psicoenciclopedia possibile di Gianfranco Baruchello (Treccani, pp. 848, ill., euro 35,00) leggiamo, tra le altre cose, queste due affermazioni: «La Psicoenciclopedia possibile è un lavoro sul sapere considerato come fragile, incerto, in divenire, aperto al dubbio e all’interrogazione. In questa enciclopedia il sapere non si accumula. Rende problematica ogni precedente acquisizione». «La Psicoenciclopedia possibile è costruita come se fosse un volume dell’Enciclopedia Italiana Treccani, ma non lo è».
Comincerò dalla seconda affermazione per arrivare gradualmente alla prima, con la quale concluderò dopo averne ‘istruito’ alcune implicazioni tutt’altro che pacifiche.
1. L’oggetto su cui cercherò di riflettere – non lo chiamo «opera» perché sosterrò che non si lascia ricondurre al concetto di opera – è talmente complesso che può essere avvicinato da un gran numero di punti di vista. Qui mi atterrò essenzialmente al punto di vista legittimato dalla sua natura paradossale, enunciata con chiarezza nella seconda citazione, che ricorda una celeberrima invenzione di Magritte: «Questo volume della Treccani non è un volume della Treccani». Notare che Magritte, scrivendo sul suo quadro Ceci n’est pas une pipe, si era dimostrato più prudente di Baruchello. Perché Ceci può essere riferito senza forzature al quadro piuttosto che alla pipa rappresentata nel quadro. Al contrario, l’oggetto di Baruchello non è un volume Treccani pur avendone tutte le caratteristiche morfologiche – è un dizionario o lessico illustrato – e giuridiche, infatti è un Volume in cui compare il logo e l’iscrizione ufficiale della Treccani.
2. In questo oggetto ci sono moltissime parole scritte, e moltissime immagini riprodotte, e tuttavia non si tratta di un oggetto che riguarda le parole e non si tratta di un oggetto che riguarda le immagini. Certamente riguarda il rapporto tra parola e immagine, ma lo riguarda sotto un profilo molto particolare che proverò a far emergere un po’ per volta.
La prima cosa che vorrei dire è che questo rapporto ha a che fare con la scrittura. Se per scrittura non intendiamo la pratica dello scrivere (o del disegnare) ma qualcosa di più originario sia rispetto alle parole che rispetto alle immagini.
3. Qualcuno avrà pensato che sto riferendo questo volume che non è un volume all’idea che della scrittura si era fatto Jacques Derrida, più o meno mezzo secolo fa. È così, ma solo in parte. Se dovessi denunciare un riferimento più pertinente farei il nome di Cesare Brandi e del suo saggio del 1960 intitolato Segno e immagine.
La tesi davvero illuminante di Brandi è che il segno e l’immagine emergono da una radice comune. Una radice che Kant – discusso in modo fine e competente da Brandi – individuava nel lavoro di un’immaginazione pre-linguistica e pre-iconica che successivamente si specializza in due attività simboliche diverse, le quali tuttavia non smettono di fecondarsi vicendevolmente. L’intera storia dell’arte, secondo il suggerimento di Brandi, si lascerebbe perspicuamente interpretare come una interminabile ricombinazione, secondo diverse proporzioni, di questo gioco integrativo tra segno e immagine. L’integrazione stessa, sia ben chiaro, essendo tutto tranne che un pacifico processo di conciliazione. Brandi avrebbe certamente trovato un posto per l’oggetto di Baruchello in questa filiera.
4. Da parte mia non avrei alcuna esitazione ad attribuire l’oggetto di Baruchello al versante del segno piuttosto che a quello dell’immagine. Ma questa sarebbe una generalizzazione che, sebbene del tutto lecita, ci lascerebbe ancora senza risposte quanto all’individualità dell’oggetto di cui parliamo. Che cosa ci sarebbe infatti a monte del segno e dell’immagine? La risposta l’abbiamo già data: una relazione istitutiva di entrambi, una condizione generativa. Ora, fermo restando che la relazione stessa o condizione generativa è come tale irrappresentabile, per riuscire a procurarcene una qualche intuizione ci si può chiedere, rifacendosi di nuovo a Magritte, che cosa questa relazione non sia. E dunque che cosa non dovremmo chiedere all’oggetto che si chiama Psicoenciclopedia possibile, pur sapendo – si faccia attenzione a questo punto – che se glielo chiedessimo l’oggetto non si opporrebbe in nessun modo alla nostra richiesta. Piuttosto, lascerebbe a noi la responsabilità di decidere se abbiamo agito in modo saggio o no.
Siccome ho appena enunciato un nuovo paradosso – e cioè che «questo oggetto x è e non è y» – provo a spiegarmi meglio con tre rapidi esempi.
5. i. La Psicoenciclopedia possibile è e non è un ipertesto. Per certi aspetti, infatti, somiglia a quello che Sergej M. Ejzenštejn, un incontenibile ed eclettico poligrafo, aveva fantasticato come un «libro sferico» a cavallo tra gli anni venti e trenta del secolo scorso. Che cos’è un libro sferico? È un ipertesto provvisto di una infinità di ingressi e di percorsi. Ma anche di un centro (un Grundproblem, lo definisce il regista), raggiungibile attraversando diversi sentieri. È evidente che se voi volete usare la Psicoenciclopedia possibile in questo modo nessuno ve lo impedirà. Ma io credo che smettereste molto presto. Perché? Perché vi accorgereste che l’oggetto di cui parliamo in realtà vi sta facendo giocare un altro gioco. Che è un gioco paradossale (al contrario del libro sferico che non lo è per niente).
ii. Un’esigenza analoga si trova in Freud, e precisamente nella scrittura dei suoi Casi clinici. All’inizio del più famoso e più complesso, quello dell’Uomo dei lupi, Freud si lamenta del fatto che la traduzione sequenziale di un processo multilivellare e multimodale come l’analisi restituisce solo in piccola parte la sua complessità e soprattutto il suo carattere performativo. Ebbene, anche qui voi potete usare la Psicoenciclopedia possibile in questo modo, cioè come un viaggio avventuroso nell’immaginazione dell’autore, compresa quella onirica, spesso evocata. Anche in questo caso, tuttavia, io credo che vi accorgereste che non è questo il gioco paradossale che state davvero giocando. L’autore e i percorsi della sua immaginazione, infatti, continueranno costantemente a sfuggirvi.
iii. Il terzo esempio ci avvicina un po’ di più alla proposta con cui vorrei chiudere la mia riflessione. Penso a Livre d’image (al singolare: «Libro di immagine»), l’ultimo film di J. L. Godard (89 anni). Anche questo film mette al centro dell’attenzione il rapporto tra parola e immagine, ma non per esplorarne le potenzialità e i processi di integrazione o di repulsione reciproca, bensì per farci fare l’esperienza paradossale del fatto che se volessimo davvero esplorare la relazione di parola e immagine dovremmo fare a meno sia dell’una che dell’altra. Un paradosso, che Godard affronta con un film che è e non è un film e Baruchello con un volume che è e non è un volume.
6. Qualcuno mi dirà: da Derrida sei passato a Wittgenstein, e hai solo più o meno parafrasato le due proposizioni con cui si conclude il Tractatus. Eccole: «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo».
È vero, ma solo in piccola parte.
La mia proposta conclusiva è molto più empirica e poco filosofica. Una proposta, ricordiamolo, che non riguarda l’oggetto nella sua complessità ma solo il suo carattere esplicitamente paradossale.
Eccola: avendo avuto sotto mano prima il pdf e poi l’oggetto materiale chiamato Psicoenciclopedia possibile mi si è imposta l’idea che questo oggetto, pur legittimando e addirittura favorendo le pratiche che ho appena descritto, sia in realtà un dispositivo simbolico che lavora – paradossalmente, appunto – piuttosto nel senso del togliere che non in quello del porre – per usare una celebre opposizione in uso nei vecchi trattati d’arte.
E dato che la dimensione onirica vi ha una parte così cospicua, non ho potuto fare a meno di pensare che in questo oggetto accada (o potrebbe accadere: dipende da noi) qualcosa di analogo a ciò che i neurobiologi chiamano pruning sinaptico. Baruchello conosce questo tema e lo cita.
Oggi sappiamo che il nostro cervello costruisce ogni giorno un numero impressionante di nuove sinapsi che, se fossero tutte conservate, lo ingolferebbero e gli impedirebbero di lavorare. Ora, alcune teorie recenti, molto accreditate e ben supportate sul piano sperimentale – penso ai lavori di Allan Hobson e della sua équipe o a quelli dell’italiano Giulio Tononi – sostengono che il sonno e soprattutto il sogno REM provvedono a effettuare questa necessaria potatura. I cui risultati rigenererebbero in particolare le nostre capacità inferenziali. O, se volete, le nostre capacità di farci nuove immagini del mondo correlabili con nuovi usi linguistici (e forse, a certe condizioni pragmatiche, con nuovi giochi linguistici).
Ora, questo libro che non è un libro, ha molti contenuti che emergono dai percorsi che rende praticabili, ma il suo statuto essenziale – la sua unicità, vorrei dire – è quello di un apparato che mira a «rimettere in fase» il dispositivo dell’inferenza in quanto tale. La forma di quel dispositivo, non i suoi contenuti. E dunque:
«In questa enciclopedia il sapere non si accumula. Rende problematica ogni precedente acquisizione».
È per questo, infine, che la Psicoenciclopedia possibile non è un’opera. Piuttosto è désœuvrement in atto: in questo, profondamente somigliante all’attività fisiologica del sognare e ai suoi materiali – cioè: parole-cose e immagini-segni, dice Freud – prima ancora che ai contenuti del sogno, al loro simbolismo e alla loro interpretabilità.
Se con queste ultime osservazioni mi venisse accreditato un piccolo passo avanti nella comprensione, almeno, del titolo del nostro oggetto, mi riterrei del tutto soddisfatto.