Nel 1959 Gianfranco Baruchello aveva deciso di lasciare l’azienda biomedica che dirigeva per dedicarsi a tempo pieno all’arte. Non era più giovanissimo con i suoi 35 anni, ma lo muoveva un’urgente consapevolezza. «Ho ragione di temere», scriveva infatti l’artista, «che manchi oggi all’uomo l’alfabeto con il quale formulare un nuovo linguaggio dell’indagine… Questo linguaggio non è nato… ma è inevitabile che venga faticosamente preannunciato». In forza di questa consapevolezza l’artista di origini livornesi aveva messo in cantiere in quello stesso 1959 un’opera fondativa del suo percorso.

IL TITOLO È QUASI TAUTOLOGICO Primo alfabeto. Si tratta di una grande carta montata su tela sulla quale nell’arco di tre anni aveva disegnato con punta di feltro e smalti un inventario di segni che lui definiva «rudimenti di un nuovo alfabeto mentale». Scorrendolo si incontrano ad esempio Libro crocefisso (memoria e coscienza di ciò che precede), Lavoro come fatto compiuto (lavoro e fatica), Errore (energia di mutazione).
Le nuove lettere dell’alfabeto sono in sostanza traduzione visiva sintetica di stati di coscienza. Primo alfabeto è l’opera che apre la bella mostra allestita negli spazi della Galleria MassimoDeCarlo di Milano, ad un anno dalla scomparsa dell’artista (fino al 22 marzo). È una mostra di impatto per le grandi dimensioni di tante opere e anche di indubbio interesse storico, perché tutta concentrata su quella cruciale stagione di avvio del percorso di Baruchello.
Come scrive Carla Subrizi nel testo che accompagna l’esposizione, ciò che spinge l’artista a questa scelta di campo è un bisogno di «reinventare il vocabolario stesso, ripensare i segni di un alfabeto per dare corpo a idee, pensieri, flussi di coscienza e, appunto, sentimenti». In quegli stessi anni altri artisti come Jasper Jones, Piero Manzoni o Jannis Kounellis lavorano alla concezione visiva di nuovi alfabeti. Ciò che contraddistingue il percorso di Baruchello è però il suo sfuggire ad ogni cristallizzazione.
Le opere di questi anni sono documentazioni di un processo, di una transizione: la superficie pittorica lo interessa in quanto supporto per rendere visibile il pensiero che lo attraversa. Le tele, con le loro grandi dimensioni, ci appaiono come degli universi mobili, stratificati, provvisori. La logica combinatoria che siamo tentati di decriptare è una logica sempre variabile, come il pensiero o il sentimento che l’hanno generata.

NELLE OPERE TRANSITANO anche forme intercettate dall’artista nella sua vita precedente, come accade in Grande Entità Ostile, tela del 1962 dominata da una enorme forma dipinta con il rosso minio delle vernice antiruggine. È un oggetto meccanico, un «teleruttore», dall’aspetto aggressivo che lascia tornare a galla il sentimento di ostilità sperimentata da Baruchello durante l’esperienza da giovanissimo in guerra. Risale al settembre 1962 anche l’incontro a Milano con Marcel Duchamp, incontro fondamentale che ispira nel breve giro di tempo Le Grand Bonhomme 3, dove l’artista sperimenta un ulteriore scompaginamento degli elementi alfabetici, che porta ad uno svuotamento progressivo delle grandi tele.
L’opera è sempre più un’avventura che sfugge ai canoni formali ma si propone come campo di una registrazione simultanea a 360 gradi di pensieri e sentimenti, senza che ci siano più gerarchie tra centro e margine. Baruchello «appartiene a una categoria di artisti plastici che si muovono nel Regno della libertà», avrebbe infatti scritto nel 1964 Dore Ashton, presentando la sua prima mostra a New York; artisti che «aggrediscono i confini convenzionali della pittura con le loro preoccupazioni mentali».