«Come venivi chiamato da piccolo? Quale voce ti chiama? La tua voce è cresciuta, è scappata, non si è più trovata, si è ritrovata?». Sono queste alcune delle domande su cui la compagnia Bartolini/Baronio ha lavorato nel laboratorio teatrale portato avanti quest’anno con l’associazione Asinitas, dal 2005 a Roma fucina di educazione, formazione e inclusione sociale, con una scuola di italiano rivolta a richiedenti asilo, rifugiati e migranti. «Il punto non era dare voce, non volevamo metterci in quella posizione, ma piuttosto desideravamo che fossero loro a prendere la parola» spiega Tamara Bartolini, quando la incontriamo a Roma. Ci racconta che l’incontro con questo gruppo di oltre venti persone è stato così forte da non «voler finire»: dopo un primo esito del percorso presentato a giugno, ne sono state presentate altre due versioni più ristrette, di cui l’ultima al festival Teatri di Vetro con il titolo La voce umana.

«VENIVAMO dall’esperienza di Josefine, lo spettacolo tratto dal racconto di Kafka, in cui cercavamo una voce che si sta spegnendo e per trovarla bisogna andare fuori, nelle strade, nelle piazze. Per noi la voce è fondamentale perché tutti i nostri spettacoli nascono da interviste. Il laboratorio prendeva le mosse dalla nostra poetica, questa era la richiesta di Asinitas, incontrarsi su un piano artistico: noi lavoriamo sempre sull’infanzia, la biografia, l’archivio. Abbiamo quindi proposto La voce umana di Cocteau, ma non per metterlo in scena, come dispositivo di partenza. Una parte importante quindi è legata al telefono, e ha preso la direzione del chiamare i parenti lontani. C’è questo filo della lontananza, e di come si ricuce».

Tamara Bartolini
Prima di iniziare ci dicevamo: qualsiasi cosa accadrà, se tutti ne usciremo un po’ spostati avrà funzionato, e così è stato. Avolte il teatro può veramente salvareIl rapporto con le comunità è una linea di ricerca fondamentale della compagnia, come testimonia la serie di spettacoli Esercizi sull’abitare. Ma con Asinitas è accaduto qualcosa di speciale: «È stato un corpo a corpo molto forte, come quando Pasolini diceva di gettare il corpo nella lotta. Si fanno cose non usuali, come andare a prendere le persone a casa perché è troppo grande quello che sta accadendo e tu non vuoi perderne nemmeno uno. In quella sala si sono dette alcune cose per la prima volta, una ragazza nigeriana ha raccontato una telefonata fatta dalla Libia di cui non aveva mai parlato, e è accaduto lì. Abbiamo iniziato lavorando con le foto di sé da piccoli, una dimensione non per tutti facile da attingere, ad esempio per le iraniane vedersi con il velo ha un significato particolare». E nell’ultima restituzione del laboratorio l’Iran è centrale, con i racconti di Sara e Zara e la condivisione sulla scena, con il pubblico che è sceso dalle gradinate, di una colazione iraniana. «Perché vale la pena esserci? Zara aveva risposto così: per fare la colazione iraniana il venerdì mattina. È diventato poi un modo per celebrare il rito dell’esserci e per festeggiare i diciotto anni di Asinitas, ma anche una dichiarazione di intenti del nostro teatro, un modo per la comunità di osservare se stessa».

QUELLO della condivisione del pasto è stato un momento emozionante per gli spettatori – chiamati anche loro a rispondere alla domanda “perché vale la pena essere qui” – e per i membri di Asinitas, che hanno raccontato il loro percorso. Ogni anno l’associazione coinvolge un artista diverso per condurre il laboratorio di teatro – l’anno scorso lo aveva diretto Fabiana Iacozzilli – si spera ora che il progetto andrà avanti nonostante le realtà sociali siano rese sempre più fragili dai tagli. «Prima di iniziare ci dicevamo: qualsiasi cosa accadrà, se tutti ne usciremo un po’ spostati avrà funzionato, e così è stato. Non sempre, ma a volte il teatro può veramente salvare. Le forme sono infinite, si può fare uno spettacolo con la quarta parete oppure, come in questo laboratorio, fare spazio nello spazio» conclude Bartolini.