«August Wilson sapeva come contenere l’intera nazione nello spazio di un ufficio, o di un cortile, e come tradurre la grandezza delle sue idee nella dimensione della vita di tutti i giorni», ha detto recentemente il critico Wesley Morris. L’altezza maestosa, quasi shakespeariana, delle idee di Wilson, la ricca musicalità poetico/dialettale della sua lingua, la comprensione profonda di un’immutabilità dell’esperienza afroamericana, come compresse nel cortiletto di una casa della Pittsburgh anni ‘50, sono evocate con grande vigore e intelligenza in Barriere.

Adattato dal dramma omonimo (uno dei dieci nel ciclo che Wilson dedicò alla sua città), Fences doveva diventare un film fin dal suo debutto a Broadway, nel 1985, quando la Paramount ne acquistò i diritti per Eddie Murphy. Il fatto che ci siano voluti più di trent’anni per realizzarlo è la prova della difficoltà di far passare un testo così radicato nella prospettiva afroamericana per il pubblico di massa (come fecero Steven Spielberg e Jonathan Demme in Il colore viola e Beloved), ma anche un gesto di deferenza nei confronti di Wilson, che aveva detto di preferire un filmmaker nero alla regia. Furono interpellati Spike Lee, Bill Duke e John Singleton, ma il progetto cadde fino al 1997, quando i diritti passarono al produttore Scott Rudin.

Fu lui  a pensare a Denzel Washington per il ruolo del protagonista, Troy Maxton, lavorante della nettezza urbana che da ragazzo sognava di diventare un campione di baseball, e che era stato interpretato sul palcoscenico da James Earl Jones. Nel 2010, l’attore e Rudin portarono a Broadway un applauditissimo revival, diretto dallo stesso Washington. Girato su una sceneggiatura cui Wilson aveva lavorato prima di morire (e su cui è intervenuto Tony Kushner), Fences riflette l’intimità con il testo costruita attraverso l’esperienza sul palcoscenico, da Washington e dalla sua co-star, Viola Davis, ma non ha la bidimensionalità che spesso accompagna gli adattamenti dal teatro. Allo spazio del cortile, Washinton aggiunge un paio di stanze della casa di Troy e Rose Maxton, e un lavoro sulle profondità di campo. Ma, meno che al set espanso, la dinamicità, l’esuberanza, del suo film sembrano affidate al valore trainante, quasi fisico, delle parole stesse, e al lavoro degli attori che le pronunciano.

Parlare, per Troy, che a 43 anni era già troppo vecchio quando, nel 1947, Jackie Robinson infranse le barriere razziali del baseball, è vitale come respirare. Un modo per invadere, controllare e evadere, lo spazio chiuso della famiglia. Nell’incontenibilità di Troy (a cui Washington dà l’eleganza di un vecchio atleta) l’amarezza dei sogni infranti, di cui Rose, ma soprattutto suo figlio Lyons pagano il prezzo. Tormentato dall’umiliazione del razzismo, dallo spettro del fallimento, dai dubbi/doveri di una mascolinità già in crisi nel fatto che Rose è il capofamiglia, Troy è un personaggio enorme, emblematico. Non a caso spesso lo si paragona al commesso viaggiatore di Arthur Miller, Willy Loman. Barriere ha ricevuto quattro nomination agli Oscar tra cui miglior film, miglior attor protagonista e miglior attrice non protagonista.