Dal balcone all’ultimo piano del grigio edificio che spicca fra le palazzine color pastello del quartiere San Pasquale di Bari, uno dei rioni più popolari della città, si sente l’eco della voce di un anziano che chiacchiera con la vicina affacciata alla finestra di fronte.

Le parole si perdono in strada, mescolandosi alle note di una canzone neomelodica e alla voce squillante di un bambino. «Lascia quel telefono! Vieni a giocare». Nascosto dietro a un albero, davanti al grande cancello che spalanca le porte di Villa Roth, un’antica residenza di fine ’800, un gruppo di ragazzini sfida il caldo asfissiante di un pomeriggio di luglio per tirare qualche calcio al pallone. «Da quando abito qui non rischio più di dormire sui marciapiedi. Se non hai un lavoro nessuno ti affitta casa» racconta Moro, originario del Ghana, che nel 2011 fugge dalla Libia e attraversa il Mediterraneo a bordo di un barcone. «Con la guerra è diventato pericoloso vivere lì. Non ero più al sicuro». È il periodo delle primavere arabe. Migliaia di migranti dell’Africa Settentrionale e Sub- Sahariana salgono su imbarcazioni di fortuna alla volta del Vecchio Continente in cerca di un futuro migliore. Chi riesce a raggiungere le coste però, non trova la Terra Promessa. Centinaia di persone scappate da un conflitto tuttora in corso, caricate su bus e traghetti, vengono trasportate da un punto all’altro di un Paese sconosciuto: l’Italia. «Dopo Lampedusa mi hanno portato al Cara di Bari. Non essendo libico, l’Europa non mi ha riconosciuto nessuno status di protezione», continua Moro. Il centro di accoglienza ospita almeno 750 richiedenti asilo a cui ogni giorno è destinato un pocket money pari a 2,50 euro da spendere solo all’interno della struttura.

«Chiedevamo un documento per poterci muovere ma nessuno rispondeva. E allora, a maggio 2011, abbiamo occupato i binari di Bari Palese, una stazione qua vicino», aggiunge il giovane. Quella manifestazione fa scattare la scintilla per le proteste che esplodono nei mesi successivi. «È stato un periodo di gran fermento. Il primo agosto è una data importante: il traffico cittadino e i treni sono bloccati dai migranti del Cara.

A Nardò, invece, i braccianti scioperano per la prima volta contro i caporali», racconta Gianni della comunità di Villa Roth. Alla rivolta del Cara seguono 44 arresti. Una campagna di solidarietà voluta da migranti, associazioni e collettivi risponde alla repressione. I manifestanti ottengono gli arresti domiciliari, da scontare al Cara di Bari o di Borgo Mezzanone; vicino alle campagne dove il caporali reclutano i migranti da sfruttare nei campi di pomodoro. ‘Solo nel 2013 abbiamo ottenuto un documento di durata annuale, e da rinnovare alla questura di Bari’, afferma Moro. Molte persone decidono di restare al Sud Italia finendo a vivere tra i ghetti nati attorno alle distese di arance, olive e mandarini. Poi fanno ritorno in Puglia, dove il domani resta sempre avvolto da una cupa nube di precarietà. Stanchi di essere trattati come pacchi postali, i richiedenti bucano quell’alone di invisibile che li avvolge occupando l’ex convento di Santa Chiara, vicino al porto di Bari.

Al monastero, già conosciuto come Casa del Rifugiato per aver ospitato i Greci in fuga dal regime dei colonnelli negli anni ’50, trovano riparo circa 250 persone. «Abbiamo recuperato la corrente elettrica con un generatore che funzionava ogni sera, finché si andava a dormire», dice Moro. «Nonostante ci fosse un solo bagno, e le condizioni igieniche fossero pessime, per noi era un luogo di incontro. Gli amici che dormivano in strada, qui non trovavano solo un posto letto. Tutto era temporaneo. Per questo si chiedeva ancora una casa e percorsi di inclusione sociale«.

Quando all’ex convento divampa un incendio, il Comune di Bari decide di evacuare l’immobile. “Lo sgombero è stato concordato, ma l’alternativa è stata una tendopoli», evidenzia Moro. L’ente individua nell’ex Set- un’autorimessa in disuso nel quartiere Libertà- un’area su cui collocare diciannove tende della Protezione Civile. Ognuna di queste ha otto posti letto, ma le persone da ospitare sono centocinquanta. Oltre la metà degli sfollati decide di andare via, perché quella situazione gli ricorda gli aiuti umanitari gestiti dall’Onu lungo la tratta Kenya- Libia, dove hanno conosciuto discriminazione e sofferenza.

Nel corso dei mesi, alla tendopoli giungono decine di persone fuoriuscite dai percorsi Sprar e lasciate all’addiaccio. Le tende sono spazi inospitali. Se in inverno non ci sono riscaldamenti, in estate la temperatura sale fino a 50 gradi e si deve dormire all’aperto. Davanti a quello spettacolo disumano cadono anche le becere strumentalizzazioni della destra xenofoba, che perde la scommessa di aizzare i residenti contro i migranti. Al contrario, come già accaduto durante lo sbarco della nave Vlora, che negli anni ’90 porta in salvo ventimila profughi della guerra dei Balcani, i baresi mettono in moto la macchina della solidarietà e denunciano il trattamento inumano imposto ai migranti.

Il comune di Bari propone di investire un milione e seicentomila euro per costruire delle casette in legno. «Ci siamo rifiutati e abbiamo presentato le nostre idee. Perché tornare nei container?», si chiede Moro. «Ci hanno divisi tra Villa Ata, centro di accoglienza gestito da una cooperativa e Villa Roth, dove abito anch’io. Qui la nostra battaglia non si è fermata e nel 2019 abbiamo aperto una vertenza contro il Comune di Bari. Vogliamo che si istituisca l’iscrizione anagrafica e si conceda la residenza per i richiedenti asilo; un diritto cancellato dai decreti sicurezza».

La tendopoli è l’emblema di un sistema di accoglienza inefficace che, a prescindere dal luogo di nascita, dimostra quanto le strategie istituzionali non servano a soddisfare i bisogni primari delle persone. All’ex Set, infatti, oltre ai migranti arrivano famiglie italiane rimaste senza un tetto. In questo posto, dove si crea un enorme paradosso, le lotte per il diritto all’abitare e per una vita dignitosa si intersecano tra loro diventando collettive, trasversali. Si scavalcano i confini e si rompono le barriere costruite su «un noi e un voi» . Quel muro di emarginazione e fragilità alzato contro chi può vivere particolari momenti di fragilità, inizia pian piano a sgretolarsi. «Ho perso la casa nel 2012. Poi ho vissuto da mia sorella e alle tende. Dopo, l’assessorato al welfare mi ha assegnato un posto a Villa Roth. Ci abito con mio marito, disoccupato, e mia figlia». Mimma ha 57 anni e vive in questa residenza insieme ad altre 40 persone.

Gli abitanti, che mantengono una relazione diretta con l’ente comunale, si incontrano in assemblea per organizzare la vita comunitaria. Ognuno di loro ha comunque ritagliato un suo piccolo angolo. Mimma, ad esempio, ha racchiuso un’intera casa in una stanza, tra le più grandi di tutta la dimora. Le foto degli affetti mai dimenticati appesi alle pareti, la caffettiera sul fuoco e la cura dei dettagli di questo ambiente raccontano la voglia di non arrendersi al silenzio delle istituzioni che dopo sette anni non le riescono ancora ad assegnare un alloggio popolare. «È buono il caffè?», chiede. «Vedi quella branda? È il letto di Lisa, mia figlia. Prendo il reddito di cittadinanza ma non basta a pagare affitto e bollette. Che dobbiamo fare? Tiriamo a campare». Lisa, 26 anni, lavora nel laboratorio di un bar: cinque giorni su sette per cinquanta euro a settimana. «Prima ne prendevo 70, poi cento e ora la metà. Ci mancava la crisi del Coronavirus», commenta la giovane. «Devo cercare un altro lavoro. Guadagno davvero poco». «Perché non passi allo sportello Fuori Mercato- No Borders? Tutte le settimane siamo qui. Magari ti possiamo aiutare» le suggerisce Gianni, dello sportello stesso.

A Villa Roth l’autogestione dal basso e il mutualismo uniscono molteplici vertenze: dalla possibilità che ogni persona abbia un tetto fino all’opportunità di «lavorare senza padroni». Villa Roth non è una proprietà privata ma un luogo pubblico collegato all’associazione della comunità di Villa Roth, che fa parte della rete nazionale Fuori Mercato. Il gruppo, infatti, accoglie le iniziative sostenute anche da chi non risiede all’interno della villa. Tra questi c’è anche la salsa di pomodoro Sfruttazero, progetto pensato nel 2014 all’interno dell’ex Socrate- occupazione abitativa- mentre si sostenevano le proteste partite dal Cara di Bari.

Oggi, quell’idea offre lavoro ai migranti residenti a Villa Roth e a giovani precari. Ai tempi in cui i governi progettano recinti e fermano il lento andare delle persone invece smistate come fossero animali, Villa Roth ci ricorda che gli ostacoli possono essere superati solo se si ricreano legami solidali e comunità fondate sull’uguaglianza.