«Ci sono sin troppi registi che si considerano ’autori’. Io provo a evitare di considerarmi un ’autore’». Con la modestia che lo distingue, Barbet Schroeder si schernisce. Insignito del premio Maître du réel nell’ambito del festival Visions du réel di Nyon, dove ha tenuto un’affollatissima masterclass moderata dal regista Lionel Baier e dal direttore Luciano Barisone, Barbet Schroeder è già proiettato verso la Croisette dove presenterà fuori concorso l’atteso nuovo lungometraggio. «Amnesia, il mio nuovo film, è stato girato nella stessa di casa di More», rivela. «La casa di mia madre che si trova a Ibiza. Quando dico che vado a Ibiza la gente s’immagina sempre folli notti trascorse a ballare. L’idea di realizzare Amnesia è sorta dal desiderio di realizzare un film ispirato molto liberamente a mia madre e alla sua decisione di smettere di parlare tedesco dopo la scoperta dei campi di sterminio nel 1945. In realtà aveva già deciso nel 1936 quando abbandona la Germania per recarsi a Zurigo insieme alla madre.

Alla base del film dunque c’è un’ipotesi. Cosa succede se una donna tedesca si trova coinvolta in una relazione platonica con un ragazzo tedesco di 25 anni che rappresenta la nuova Germania? Ovviamente le cose sono cambiate e lei è costretta a confrontarsi con il tempo che passa, il cambiamento e la sua decisione. Il momento chiave del film, quindi, non può che essere quello in cui iniziano a parlare in tedesco fra di loro. L’idea di porre il massimo dell’intensità drammatica di un film sul cambio di registro linguistico non è mai stato fatto. Mi rendo conto che si tratta di una decisione molto rischiosa ma anche estremamente eccitante». Schroeder, che si considera un piccolo discepolo di Eric Rohmer, ha legato il suo nome a imprese documentarie «impossibili» come il film su Idi Amin Dada. «Quando gli ho fatto vedere il film completato, non è stato molto contento. Non gli sono piaciute scelte di montaggio che sospetto avesse compreso non erano molto lusinghiere nei suoi confronti. Ho provato a fargli capire che si trattava comunque della mia visione e che lui mi aveva promesso massima libertà. Sembrava avesse capito ma invece ricevo una telefonata. Erano dei cittadini francesi che Idi Amin Dada aveva fatto rinchiudere in un hotel di Kampala. Aveva dato loro il mio numero di telefono dicendo di risolvere con me la questione del montaggio del film. Ovviamente, a quel punto, era davvero difficile non prendere in seria considerazione le sue richieste». Cineasta cosmopolita, nato a Teheran, fondatore della leggendaria Films du Losange che esordisce con due titoli chiave come Paris vu par (firmato collettivamente da Chabrol, Douchet, Godard, Pollet, Rohmer, Rouch) e Méditerrannée di Jean-Daniel Pollet, autore che ha esplorato il lato fiction del documentario e, soprattutto nei suoi film hollywoodiani, ha lavorato il lato documentario della messinscena cinematografica, rappresenta un’idea di cinema aperto, in dialogo permanente con il mondo. «Ciò che tento di fare con ogni film che realizzo», spiega Schroeder, «è tentare di comprendere qual è la realtà, la complessità della cosa che tento di far vedere. E, contemporaneamente, portarne alla luce tutte le possibilità drammatiche. Evitando i cliché e le cose che sono già state fatte. A volte mi è capitato di lavorare in film di genere che hanno le loro regole e di conseguenza tento di apportare delle varianti alle regole. In base alla storia si tratta di comprendere se si può avanzare su un piano psicologico, oppure esplorare la possibilità di un maggiore realismo. Se si tratta di un film d’azione, provare a rendere più plausibile, dal punto di vista emotivo, situazioni che altri registi considererebbero solo come una possibilità per girare delle scene molto spettacolari». Soluzione estrema, per essere un film d’azione, si presenta senz’altro come il suo film più «langhiano». «È vero», ammette Schroeder con un sorriso compiaciuto. «Con Soluzione estrema ho tentato di fare un film d’azione che fosse diverso da quanto viene prodotto a Hollywood. Mi piaceva l’idea che fosse un film attendibile spazialmente. Che si comprendesse la geometria dei luoghi era per me una condizione fondamentale.

La lezione di Fritz Lang mi è stata molto utile mentre giravo Soluzione estrema. Mi piace avere una percezione precisa dello spazio in un film. Tutto il contrario, insomma, di quanto accade oggi nei film di Michael Bay». «Non è che non mi piace Bay», spiega, «anche se non fa certo il cinema che m’interessa. Lui ha dimostrato con i fatti che si può fare un cinema completamente diverso da quello che ho fatto io. Ha dimostrato che un piano si può raccordare con un altro anche se non hanno alcun elemento in comune. Lui fa un cinema che non esisteva prima anche se è la prova che il 3D non può funzionare. Non puoi fare il 3D con il tipo di montaggio di Michael Bay. Le due cose si escludono. Personalmente mi piace sperimentare con la tecnologia. Non ho alcuna preclusione ideologica. Ciò che conta, alla fine, è il risultato. In questo senso credo che per me il film cruciale, che mi ha fatto capire che le cose potevano essere diverse, è stato La vergine dei sicari. Sarebbe stato impossibile realizzare un film a Medellin, in quegli anni, lavorando in pellicola, con tutti le difficoltà tecniche che ne sarebbero conseguite.

Eric Rohmer era anche lui molto interessato alle nuove possibilità tecnologiche. Ho discusso a lungo con lui e credo che il desiderio di realizzare La nobildonna e il duca sia nato anche da queste conversazioni che abbiamo avuto». «Il mio rapporto con Hollywood», continua, «soprattutto quando sono andato a lavorare negli Stati Uniti, si è originato da un dialogo costante con il cinema americano del passato e con il rapporto che ho intrecciato con un europeo come Luciano Tovoli che è stato il mio direttore della fotografia. Tovoli e io non siamo stati certo i primi ad andare in America per lavorare. Hollywood è sempre stata molto accogliente nei confronti del sangue straniero.

Oltre che da Luciano, sono stato aiutato molto da Susan Hoffman che è stata la mia produttrice e la mia story consultant. Se ci fai caso, dietro ogni regista che riesce a fare un buon lavoro, c’è sempre un’ottima squadra che collabora con lui». Caratterizzato da un piacere quasi tattile di una (ri)scoperta continua del piacere di filmare, il cinema di Schroeder è un insieme in perenne reinvenzione. Probabilmente il tratto «autoriale» più originale e forte di un cinema altrimenti schiettamente imprendibile. «Questa è un tratto assolutamente spontaneo del mio modo di immaginare il cinema», sorride. «Devo essere assolutamente posseduto e innamorato della storia che voglio raccontare. Devo essere pazzo degli attori e di ogni singolo aspetto del progetto che desidero realizzare.

Una volta calato totalmente nel progetto non ho mai avuto nessun problema nel comunicare questo entusiasmo a quanti saltano a bordo per lavorare con me». Non è un caso che alcune delle performance più convincenti di attori come Bridget Fonda, Andy Garcia e Liam Neeson, si trovino proprio nei film di Schroeder. «Sono storie d’amore. È una specie magia. Non ha nulla a che fare con la direzione degli attori. Si tratta di trasmettere passione. O c’è o non c’è. Non c’è nessun segreto o strategia. Si tratta di storie d’amore». Schroeder, autore europeo calato nel ruolo del professional hollywoodiano d’altri tempi, si trova anche in una posizione privilegiata per raccontare in prima persona la grande metamorfosi della televisione americana avendo diretto anche un episodio del serial Mad Men.

«Stavo preparando Inju, la bête dans l’ombre quando la produzione mi contatta per sapere se potevo essere interessato alla realizzazione di qualche episodio. All’epoca sono stato costretto a rifiutare ma mi sono tenuto in contatto e non appena si è creata l’opportunità giusta mi sono gettato a capofitto nell’avventura. E sì, le serie tv sono fatte meglio di quanto non lo sia il cinema oggi. Le serie tv sono più complesse, più interessanti, ci sono cose che non state mai state viste sul grande schermo e poi c’è questa idea del «mega-movie» che è estremamente affascinante. A fronte di tutto ciò il cinema offre solo enormi spettacoli zeppi di effetti speciali. Il film diventa così un evento, più di ogni altra cosa. Film che sono campagne promozionali.

Alcuni sono anche buoni, così come ogni anno vengono prodotti dei film molto interessanti. Le serie tv, invece, soprattutto quelle drammatiche stile HBO, sono un’altra cosa. Si prova a imitarle in tutto il mondo, ma c’è sempre la censura con cui fare i conti. Negli Stati Uniti, invece, se un’idea funziona, va in onda al di là dei problemi di censura. E questo è grande vantaggio. Ovvio che non parliamo di cinema in senso stretto. Parliamo soprattutto di scrittura e interpretazione che passano un pochino in primo piano rispetto alla regia. Sul set di Mad Men volevo soprattutto imparare. Rispetto a una serie come I Soprano, Mad Men è un low-budget anche se nessuno lo direbbe. Hanno degli scenografi e dei costumisti straordinari. Personalmente ho imparato che posso realizzare 50 minuti in una settimana e quando capisci che puoi farlo è come se scoprissi di avere ali nuove.

Bisogna vivere una sensazione di questo tipo per crederci. Sono convinto che in questo tipo di televisione ci sia l’eredità dei live-drama dei Robert Mulligan e dei John Frankenheimer. Si tratta però di cose che andrebbero studiate approfonditamente e in dettaglio prima di tracciare analogie. Ci sono molte cose da esplorare nel passato. Penso per esempio al lavoro con le macchine da prese multiple, al lavoro con gli attori». L’accenno a Inju, impone un passo indietro. «Inju è la più grande delusione della mia carriera. Un film che non è stato affatto compreso. Un film che è stato percepito solo come un omaggio a un genere e non come un adattamento molto rigoroso del lavoro di uno scrittore come Edogawa Rampo. Credo che la critica e il pubblico si siano spaventati di fronte al sangue e al sesso proprio come è accaduto con Maîtresse». Per concludere: è vera la storia che raccontava Menahem Golan che lei si è presentato da lui armato di coltello minacciando di uccidersi se lui non le avesse prodotto Barfly? Schroeder scoppia a ridere. «Adoro Menahem! Che storie che raccontava. Mi è dispiaciuto molto quando ho saputo che era morto. Per sapere la vera storia di Barfly conviene leggere Hollywood di Bukowski, dove c’è l’80% di quanto è accaduto». (Nyon, aprile 2015)