C’è un’America triste e smarrita dietro le immagini scintillanti di New York o di Las Vegas, come dietro la grande vetrina di Hollywood. Se volessimo darle un volto femminile, potrebbe essere una donna di mezza età con i bigodini in testa e il rossetto sbavato, o un’adolescente cresciuta in campagna ai bordi della ferrovia, che non sa nulla del mondo se non ciò che ha appreso osservando la vita di una sorella un po’ civetta ormai morta di tubercolosi, come nella breve pièce Proibito di Tennessee Williams, scritta nell’immediato dopoguerra.

Quando negli anni ’70 vidi per la prima volta Wanda, l’unico film di Barbara Loden, ispirato da un fatto di cronaca e interpretato da lei stessa, pensai che gli umori di quell’America minore (ma incredibilmente vasta come territorio), che tuttavia avevano dato vita a gran parte della letteratura americana, erano confluiti in modo del tutto particolare nella vicenda e nel personaggio di Wanda, che aveva anche molte caratteristiche della stessa Barbara Loden, oltre che attrice e regista, seconda e ultima moglie di Elia Kazan, che un po’ l’aveva aiutata nella realizzazione del film. Difficile infatti stare contemporaneamente di fronte e dietro la macchina da presa, soprattutto in un film fondato essenzialmente su un personaggio quasi sempre al centro della scena.
Ma cos’ha di così particolare Wanda, un’emarginata costretta da un uomo a collaborare a una rapina cui cerca fino all’ultimo di sottrarsi, con un’autrice che arriva a dire di essere come lei?

Credo che proprio in questa identità femminile ribelle e smarrita prima del femminismo – e purtroppo fallimentare – stia la chiave dell’identità Barbara-Wanda, in cui si specchia anche quella della più grande diva americana: Marilyn Monroe. Forse non è casuale, infatti, che Barbara Loden come attrice, prima di diventare regista, abbia interpretato a teatro a New York, ottenendo un grande successo, il ruolo femminile della protagonista di Dopo la caduta, la pièce di Arthur Miller ispirata alla sua storia con Marilyn, per la regia di Elia Kazan.
Dall’insieme di questi personaggi viene fuori «come in uno specchio» l’identità, mite e ferrea insieme, in qualche modo disorientata e smarrita, di Barbara Loden, creatura cinematografica sempre in bilico tra successo e fallimento non solo nel cinema ma anche nel suo rapporto coniugale con Kazan.

In Wanda Barbara appare, all’inizio del film, con un abitino chiaro e la testa gonfia di bigodini, sullo sfondo scuro e sporco dei materiali di risulta di una miniera di carbone. La sua figurina spicca contro il verde/nero del contesto. Poi Wanda appare con un uomo che lei chiama Mr. Dennis a Waterbury, in uno spiazzo all’ingresso della Holy Land, una sorta di percorso nella miniera in disuso tra episodi ricostruiti delle Sacre Scritture, creato un po’ sullo schema di Disneyland, ma in abbandono. Mr Dennis è là per chiedere a suo padre, un vecchio che si prende cura del luogo, di essere aiutato a fare il colpo della vita: assalire una banca per poter vivere dei proventi per il resto dei suoi giorni.

Ma il vecchio, già incerto sulle gambe, si rifiuta di aiutarlo. È qui che Mr. Dennis decide di coinvolgere Wanda, anche lei recalcitrante ma poco convinta complice di un uomo con il quale non vuole litigare, perché si trova bene con lui. La vedremo in seguito in un’auto con un’acconciatura di fiori bianchi che fa pensare a una sposa. Ma la rapina, che Mr. Dennis ha organizzato scrivendo le tappe dell’azione su un foglietto, fallisce perché tra le azioni da compiere ce n’è una che non è stata prevista e che Wanda non compie. Lei arriva sulla scena del crimine, davanti alla banca, quando Mr. Dennis giace riverso a terra già ucciso dalla polizia. Verrà presa, processata e condannata a vent’anni di carcere. E nell’aula del tribunale inaspettatamente ringrazierà i giudici per la pena assegnatale.

Questo perché durante tutto il corso del film Wanda non fa che eseguire senza una precisa volontà le azioni che la vita le pone di fronte, senza porsi interogativi, senza opposizioni decise, in una sorta di acquiescenza passiva che tuttavia la conduce sempre sulla strada «sbagliata», in un mondo che Wanda attraversa sempre in opposizione all’opinione comune e soprattutto fuori da qualsiasi comportamento che rispetti le regole convenzionali del vivere.

Benché premiato al Festival di Venezia, in America il film non piacque alle prime esponenti del femminismo che stava sorgendo, perché l’acquiescenza , la «passività» recalcitrante di Wanda non erano certo i segni della Wonder Woman potente, rivendicatrice e vincente voluta dalle protagoniste più accese del Movimento delle Donne. C’era però qualcosa in questo personaggio, in questo film e nella regista/attrice che l’aveva realizzato, che andava oltre l’attualità e faceva emergere in modo eloquente il disagio femminile in una società inadeguata, per cui Wanda diventava la rappresentazione di un altro volto dell’America, del suo smarrimento e della sua opacità sotto il cielo lattiginoso dei molti Stati di cui si parla poco e che costituiscono però il tessuto reale più vasto del paese.

Solo dopo dieci anni, e dopo la morte di Barbara Loden a 48 anni per un tumore, il film approdò in Francia suscitando l’interesse di Marguerite Duras, che ne parla entusiasticamente con Elia Kazan in un’intervista pubblicata dai «Cahiers du Cinéma», proponendogli addirittura di distribuirlo lei stessa in Francia assieme ai suoi film. Il film è indubbiamente una sorta di «autobiografia emotiva» di Barbara, che resta una di quelle autrici in grado di fare grandi film ma che non ne hanno avuto occasione.

Nella scia dell’apprezzamento che la sua opera ha progressivamente acquisito anche in sua assenza, si colloca l’uscita in questi giorni di un libro straordinario di Nathalie Léger, Suite per Barbara Loden, appena tradotto in Italia da Tiziana Lo Porto per i tipi de La Nuova Frontiera. È un libro che sfida coraggiosamente ogni tipo di analisi cinematografica collocandosi tra Cinema e Letteratura, riportando in vita tutta la complessità e la carica umana del personaggio con una libertà e una creatività di linguaggio che in alcuni tratti sconfina nella poesia e rievoca Duras, rendendo per la prima volta appetibile un genere come la critica cinematografica che in certi casi rischia di annoiare.