L’Opera di Roma porta oggi in scena per l’ultima sera Il tabarro di Puccini e Il castello del duca Barbablù di Bartók. Un accoppiamento fra i molti possibili scelti nell’allestire in teatro il solitario capolavoro operistico di Bartók, con un ventaglio di possibilità che spazia dalle creazioni contemporanee agli atti unici del XX secolo o al balletto, con esiti di volta in volta diversi. Per l’Opera di Roma si tratta della prima tappa di un percorso che affiancherà ogni anno un pannello del Trittico pucciniano a un atto unico del Novecento: L’Heure espagnole di Ravel per Gianni Schicchi e Il prigioniero di Dallapiccola per Suor Angelica. Il contatto fra i due lavori sprigiona inevitabili attrazioni che ne condizionano la visone globale, per assonanze o contrasto, per l’interpretazione musicale come quella scenica. Nel caso del direttore Michele Mariotti, che s’intesta l’intero progetto triennale, il polo attrattivo sembra spostato verso Bartók, con un conseguente raffreddamento misurato delle espansioni pucciniane. La cura sottile degli equilibri fra buca e palcoscenico, dei diversi piani sonori della scrittura pucciniana e della dizione degli interpreti conferisce spessore e felice unitarietà drammaturgica all’opera.Tolte alcune incongruenze, come il ricorrere immotivato di un fondale di gusto non impeccabile ispirato all’Isola dei morti di Böcklin, Il Tabarro funziona meglio del Barbablù.

La redazione consiglia:
Puccini, la collezione sulle noteSI ESALTANO dunque le consonanze di una partitura straordinariamente ricca con il panorama musicale europeo, da Stravinskij ai francesi. Il regista Johannes Erath e i suoi collaboratori –Katrin Connan, scene,Noëlle Blancpain, costumi,Alessandro Carletti luci e Bibi Abel video – sovrappongono all’onnipresente evocazione musicale della Senna un evanescente teatro interiore delle illusioni che a ogni personaggio riserva uno straniante numero da musical, tanto che Giorgetta nel finale ritrova Michele nell’abito di gala che abitava i suoi sogni, quelli della Parigi colorata, le giovani ballerine, gli innamorati sul lungofiume. Tolte alcune incongruenze, come il ricorrere immotivato di un fondale di gusto non impeccabile ispirato all’Isola dei morti di Böcklin, Il Tabarro funziona meglio del Barbablù. Pur efficace nell’uso degli spazi scenici e delle attrezzature teatrali – nel Tabarro suggeriscono gli ambienti del porto e della chiatta – e centrata nel sottolineare violenza reciproca fra Barbablù e Judit, la regia di Barbablù procede con poco mordente e senza prendere partito, fra proiezioni, velature e andirivieni di mimi. Mariotti sceglie invece di smussare asperità e lame espressioniste a vantaggio di un gioco di cesello e ombreggiature iridescenti.

CONVINCENTE tutta la distribuzione vocale, fra cui Luca Salsi, Michele di livida disperazione, il Luigi di Gregory Kunde, voce forte e sicura, Maria Agresta, Giorgetta lontana da ogni eccesso verista, la vivace Frugola di Enkelejda Shkoza. Allineati alla visione del direttore il Barbablù più insinuante che minaccioso di Mikhail Petrenko e la Judit appassionata di Szilvia Vörös. Domenica scorsa teatro davvero pieno, interpreti festeggiati, regia perdonata con mite indifferenza.