La presenza a sorpresa quanto inusuale, dato il suo ruolo, del presidente della Bce a Palazzo Koch per ascoltare le Considerazioni finali del governatore della Banca D’Italia, ha catturato l’attenzione della stampa e spostato il cono di luce. Poiché di solito Mario Draghi si muove a ragion veduta, questa sua improvvisata risponde probabilmente a due obiettivi. Da un lato sottolinea che l’Italia è un osservato speciale delle istituzioni europee poiché di fronte a qualche segnale di ripresa nella Ue il nostro paese è una infelice eccezione. Dall’altro lato, può anche volere manifestare un apprezzamento verso l’operato dei vertici di Bankitalia, in scadenza il prossimo ottobre, a favore di una loro riconferma.

Scelta che sembrerebbe incontrare il gradimento di Padoan, di Gentiloni (se in autunno ancora guiderà il governo) e del capo dello Stato Mattarella. Il tutto avviene mentre il nostro paese è avvolto da una crisi politica e istituzionale senza precedenti. Di cui recentemente ha risentito anche la Borsa, importante termometro dei poteri che contano.

Il parlamento è da tempo delegittimato dalle sentenze della Corte Costituzionale; il governo Renzi ha subito un plebiscito alla rovescia il 4 dicembre, che ha permesso di salvare la Costituzione, unico punto fermo; il governo Gentiloni nato come fotocopia, dopo avere coltivato qualche ambizione in più, è messo in forse dal caotico rincorrersi delle date sulle elezioni anticipate; i progetti di legge elettorale durano lo spazio di un mattino ed è più che lecito subodorare un nuovo imbroglio dietro un finto sistema tedesco che servirebbe al voto utile per restringere a sole quattro forze la rappresentanza parlamentare.

In questo quadro l’auspicio di Visco di una politica dalla «veduta lunga» appare improbabile. Ma la presenza di Draghi è lì a dire che al di là della «campagna elettorale perenne», c’è un sottostante che in realtà costituisce il vero governo dell’Europa, quello dei poteri finanziari e bancari, un pilota meno automatico di un tempo – visti anche gli sconvolgimenti mondiali che minano antichi assetti, come l’apertura di un esplicito contrasto fra Trump e la Merkel e per estensione la Ue -, ma che proprio per questo abbisogna di un protagonismo in più da parte dei suoi interpreti, la cui continuità andrebbe perciò garantita.

Le Considerazioni finali di Ignazio Visco non deludono una simile prospettiva. E’ emblematico che «i problemi principali del Paese» – le conseguenze «più gravi di quelle della crisi degli anni ‘30» – vengano individuati in primo luogo nella crescita del debito pubblico e nei crediti deteriorati delle banche. La questione dell’occupazione – malgrado i rapporti annuali e mensili dell’Istat di questi giorni – passa, se va bene, in terza linea. Visco immagina che di fronte ad una “crescita debole”, quando c’è attorno all’1% annuo, e una inflazione che stenta ad arrivare al 2%, per portare il rapporto debito/pil sotto il 100% in dieci anni servano politiche di bilancio capaci di garantire un avanzo primario del 4% del Pil. Che in altri periodi il nostro paese abbia segnato performance di questa entità e persino superiori è pure vero. Ma il quadro economico internazionale e interno era di tutt’altro tipo, come appunto tra il 1995 e il 2000. Ora la ricetta, del tutto illusoria, si riduce al «controllo dei conti pubblici», quindi nessuna spesa sociale né rilancio degli investimenti, e a fantomatici «programmi di privatizzazione».

Come si possa in questo modo soltanto alleviare la disoccupazione e la precarietà resta un mistero tutt’altro che gaudioso. Visco tocca il tema della disoccupazione, che definisce «dolorosa» solo oltre la metà delle sue Considerazioni, tra la richiesta ribadita della «costituzione di una società di gestione degli attivi bancari deteriorati con supporto pubblico» – la bad bank, dove infilare i crediti inesigibili – e la difesa d’ufficio del ruolo di vigilanza, per la verità non irreprensibile, svolto dall’istituto centrale sul sistema bancario italiano. Le sue affermazioni non sono leggere: «La quasi totalità dei lavoratori dipendenti a termine vorrebbe un contratto di lavoro permanente …. tra i giovani con meno di 30 anni, circa un quarto, un terzo nel Mezzogiorno, non aveva (fine 2016) un lavoro né era impegnato in un percorso formativo. Sono valori lontani da quelli di gran parte degli altri paesi europei».

Parole che dovrebbero pesare sulla coscienza di chi ripropone in modo truffaldino i voucher. Ma questo non succede perché la coscienza da quelle parti non è di casa e perché lo stesso Visco propone ricette monche o sbagliate.

Dire che semplicemente bisogna accrescere la produttività è acqua fresca, o peggio. Il risparmio eccede gli investimenti. L’assenza di innovazione di prodotto comprime tutti i fattori della produzione. Serve una politica economica capace di influire sia sulla domanda che sulla produttività di sistema. Un piano di investimenti pubblici, soprattutto al Sud, connesso con una redistribuzione dei redditi per via fiscale e diretta. Un coefficiente di Gini (misura le diseguaglianze) pari allo 0, 40% non è sopportabile eticamente e ostacola qualunque prospettiva di sviluppo sociale.

Ma se si pensa solo all’avanzo primario, questi restano solo sogni.