La scorsa settimana la Commissione e l’Antitrust europei hanno definitivamente approvato il piano di salvataggio dell’istituto di credito tedesco Nord Landes Bank, decimo nel paese per grandezza, e pressoché completamente di proprietà pubblica, in particolare di due Lander (Bassa Sassonia e Sassonia-Anhalt). Un prototipo di quel diffuso mondo di medio-piccole banche regionali o locali ancorate al robusto tessuto produttivo teutonico.

Un ancoraggio che, nella fattispecie, è stato vittima di una bolla esplosa sul versante dei finanziamenti al settore delle costruzioni navali.

Tale settore, infatti, è andato via via crescendo con il crescere della globalizzazione e dei traffici marittimi, finendo per alimentare la costruzione di navi giganti che successivamente le compagnie di shipping non sono state in grado di riempire adeguatamente di merci, con il risultato che l’offerta del trasporto ha superato di gran lunga la domanda, finendo per evidenziare i limiti dell’intera impalcatura finanziaria.

Questa parabola ha mandato in sofferenza ampie parti del settore dello shipping e ha creato una crescente massa di crediti deteriorati, derivanti proprio da questo settore.

Un processo analogo, seppur più contenuto, è stato vissuto da diversi istituti italiani, come la genovese Carige, che hanno visto aumentare le proprie sofferenze nel medesimo segmento.

Ora l’espediente con il quale è stato digerito il salvataggio, che dopo la crisi avrebbe dovuto essere escluso dalle nuove regole continentali, è piuttosto discutibile, in quanto viene sottolineato come l’intervento sia pubblico, ma a condizioni di mercato.

La controprova mancante, infatti, è data dal fatto che non si ha riscontro del perché allora non vi sia stato direttamente un intervento del mondo privato. L’attesa di un guadagno economico per le autorità pubbliche appare tutt’altro che garantito da alcuna legge di mercato, per non dire che risulta dubbio in relazione all’assenza di alcun interesse privato.

In ogni caso questa decisione è accolta positivamente proprio in quei paesi che nel recente passato hanno subito un diverso trattamento, in particolare l’Italia, per i quali è stato persino equiparato il fondo interbancario a garanzia pubblica ad aiuto di Stato. Crescono le aspettative che la nuova Commissione europea mostri maggiori aperture verso l’intervento pubblico, finendo per abdicare a quel ruolo rigorista assunto finora, circoscrivendo il raggio d’azione del bail-in e il coinvolgimento degli investitori privati. D’altronde molteplici casi sono ancora aperti tra gli istituti italiani e necessitano di una mano pubblica per essere raddrizzati.

Dal caso Mps fino alla Banca popolare di Bari. Nel primo caso si ipotizza di dirottare gli Npl (Non performing loans) verso la bad bank in mano al ministero dell’Economia e Finanza e nel secondo di trasformare partite fiscali per consentire di raddrizzare i bilanci.

In entrambi gli esempi il contributo statale sarebbe più evidente che nel salvataggio della banca tedesca, ma se prende avvio una nuova fase di rivisitazione del rigore, si accende la speranza di dilatare ulteriormente i gangli della regolamentazione, andando oltre il modello in cui il pubblico rispetta le presunte regole di mercato.

Complessivamente, dunque, si predispongono strumenti pubblici, dalle bad bank fino alle garanzie di Stato, per fronteggiare i fallimenti di mercato, strumenti che in un modo o nell’altro si sottopongono alle medesime leggi di mercato che risultano fallire, senza però dare vita a una effettiva regia pubblica, senza incidere sugli assetti, finendo per prevedere uno Stato generoso, ma del tutto passivo.

Dagli anni Novanta della privatizzazione degli istituti di credito quello che manca è un vero bilancio degli esiti di tale processo e una prospettiva per tornare a padroneggiare un ganglio centrale per l’economia.