È di fatto la fine del segreto bancario svizzero che ha regalato alla Confederazione elvetica, nella sua evoluzione dall’inizio degli anni Trenta, la fama di paradiso fiscale nel cuore dell’Europa. Ieri, dopo anni di controversie e una lunga trattativa che ha trovato molti ostacoli soprattutto nei governi di centrodestra, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e la consigliera federale, Eveline Widmer- Schlumpf, hanno firmato a Milano un Protocollo che modifica la Convenzione tra Italia e Svizzera del marzo 1976 sulle questioni finanziarie e fiscali, e pone le condizioni per l’uscita di Berna dalla black list italiana.

Un accordo che, ha spiegato Padoan, «in un’ottica di lungo termine» porterà «grandi benefici per le finanze pubbliche». Il ministro però non ha voluto quantificare i possibili ricavi economici: «A bilancio questo accordo è postato un euro ma azzardo una previsione, sarà più di un euro. Mi fermo qui – ha aggiunto però – non vado oltre». Azzarda invece Matteo Renzi che, entusiasta, incassa e affida a Twitter il suo commento: «Oggi è stato siglato l’accordo con la Svizzera sul segreto bancario: miliardi di euro che ritornano allo Stato #lavoltabuona #comepromesso».

L’intesa, secondo la legge italiana sulla voluntary disclosure entrata in vigore il 1° gennaio 2015, permette ai contribuenti italiani che vogliono regolarizzare valori e redditi non dichiarati depositati in Svizzera di poter aderire al programma di autodenuncia alle condizioni meno onerose applicate in Italia o negli altri Paesi che non figurano nelle black list, «pagando tutte le imposte dovute, come prevede la legge, e usufruendo di sanzioni più basse». Due sono i documenti firmati: «Un primo giuridico – ha spiegato il titolare del Mef – che ora va all’esame dei due Parlamenti (e in Svizzera potrà anche essere sottoposto successivamente a referendum popolare, ndr) ed un altro politico sulla road map da seguire per definire ulteriori questioni, quali la tassazione dei lavoratori frontalieri e le disposizioni per il Comune di Campione d’Italia, enclave italiana circondata da territorio svizzero».

Per quanto riguarda i lavoratori frontalieri, anche quelli svizzeri che lavorano in Italia, nella road map si prevede un’imposizione fiscale ordinaria nello Stato di residenza e una limitata al 70% della quota spettante nello Stato del luogo di lavoro, con un carico fiscale totale dei frontalieri italiani che rimarrà inizialmente invariato e successivamente, con molta gradualità, sarà portato al livello di quello degli altri contribuenti.

Invece il primo documento, che modifica la Convenzione per evitare la doppia imposizione, contiene una clausola sullo scambio di informazioni finanziarie su domanda inoltrata dalle autorità fiscali italiane. In sostanza, oltre allo scambio automatico di informazioni a cui la Confederazione elvetica si adeguerà adottando gli standard Ocse sulla base di un negoziato in corso tra i paesi dell’Ue entro settembre 2018, con riferimento all’anno 2017, un anno dopo di quanto lo farà l’Italia, l’Agenzia delle entrate potrà «richiedere alla Svizzera informazioni anche sui rapporti bancari dei contribuenti italiani in essere a partire dalla data della firma» dell’accordo, ossia da ieri. Le richieste potranno essere «di gruppo» o riguardare un singolo contribuente.

L’intesa tra i due Paesi, che senz’altro mette la parola fine all’epoca berlusconiana degli scudi fiscali , è considerata da Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, «uno strumento essenziale di lotta e prevenzione contro l’evasione fiscale». Secondo l’avvocato elvetico Paolo Bernasconi, autore della legge svizzera sull’antiriciclaggio, con questo accordo «l’Italia recupera il tempo perduto». Eppure, spiega, dopo che «i rifugi fiscali più solidi» come Berna, Singapore, Montecarlo e Liechtenstein, «hanno ormai definitivamente imboccato la strada della conformità fiscale», ne rimangono comunque «ancora parecchi altri: Dubai, Londra, Mauritius, Serbia, Seychelles, Slovacchia, Slovenia, Tunisia e simili». «Poco sicuri», specifica Bernasconi, ma comunque «rifugi» per quell’immensa mole di capitali che, come ha dimostrato la lista Flaciani, alimentano anche i mercati di morte.