Non è il cammino accidentato delle unioni civili e non sono neppure le prossime comunali. La nuvola che offusca gli orizzonti di gloria vagheggiati dal premier ha un nome diverso: banche. Da qualsiasi punto di vista la si prenda, il nodo che preoccupa palazzo Chigi passa per qualcosa che ha a che vedere con gli istituti di credito.

Ieri il Tribunale fallimentare di Arezzo ha decretato lo stato di insolvenza per Banca Etruria e ha respinto il ricorso per incostituzionalità del decreto salva Banche presentato dall’ultimo presidente della Banca, Lorenzo Rosi. Non significa automaticamente che la procura di Arezzo proceda con un’inchiesta per bancarotta fraudolenta contro tutti gli amministratori della banca, ma quasi. Che nei prossimi giorni Pierluigi Boschi si ritrovi indagato per l’undicesima volta dal 2010 è, se non proprio certo, molto probabile.

A decidere sarà il procuratore Roberto Rossi, che a sua volta si trova in una posizione pericolante. A dicembre il Csm lo aveva sollevato da ogni sospetto di aver favorito in qualche modo l’ex vicepresidente della banca, il padre della ministra. In poco più di un mese la situazione si è ribaltata. Rossi aveva affermato di non conoscere Boschi. Poi è emerso che in 4 dei 10 procedimenti che avevano visto l’ex vicepresidente indagato era stato proprio lui ad archiviare e il particolare non ha fatto una buona impressione a palazzo dei Marescialli. La prima commissione del Csm ha chiesto a Firenze i documenti sulle 10 archiviazioni, e in questa condizione non è certo facile che Rossi soprassieda sull’apertura di una nuova inchiesta.

Le eventuali colpe dei padri non ricadono certo sulle figlie ministre, ma dalla vicenda né la Boschi né Renzi sono usciti bene, e la nuova inchiesta riaprirebbe una ferita già tutt’altro che rimarginata. Anche perché tornerebbe subito fuori che se gli obbligazionisti non potranno rivalersi su dirigenti che regalavano crediti facili agli amici e pagavano le consulenze a peso d’oro sarà per colpa di una legge del governo, varata in settembre. In quel consiglio dei ministri, che pure finiva per riguardare suo padre, Maria Elena Boschi era presente: in questo caso quindi neppure può appigliarsi la foglia di fico inventata da Berlusconi, quella per cui se mentre si vara una legge il governante più o meno direttamente interessato esce a prendersi un caffè non sussiste più conflitto d’interessi. Magia! Senza contare che resta in sospeso il nodo dei già limitati rimborsi. Renzi giura di non aver inserito la voce nel decreto sulle banche per fare prima. I non molti obbligazionisti interessati aspettano di vedere per credere.
Banche, banche. Come quelle che sono colate a picco ieri in borsa. Non è una tempesta circoscritta nei confini della penisola e il ministro Padoan non ha esitato a ricordarlo ieri, commentando la disfatta. Sono «le prospettive di crescita globale che iniziano a essere meno incoraggianti rispetto a qualche mese fa», ha detto e chi potrebbe dargli torto. Però è anche vero che nella tempesta perfetta le banche italiane somigliano a gusci in balia delle onde. Si vedrà nei prossimi giorni se avrà qualche effetto rassicurante la riforma delle banche cooperative varata mercoledì notte, i cui tempi di attuazione, peraltro, non sono affatto brevi. La trasformazione delle banche cooperative in un colosso unificato che rappresenterebbe il terzo istituto italiano dopo Intesa e Unicredit non arriverà in porto prima del 2017.

Nel merito è una riforma che ha già sollevato ondate critiche, perché cancella il senso stesso degli istituti cooperativi allontanandoli dal territorio a tutto favore della grande finanza internazionale. Ma il punto critico, a breve, è che potrebbe rivelarsi assolutamente insufficiente per rendere il sistema finanziario italiano meno esposto nel mare in tempesta di una crisi che è già in corso. Le banche, sempre loro, sono state anche il detonatore dello scontro tutt’altro che risolto con l’Europa. Ieri Renzi ha risposto con una lettera a Eugenio Scalfari e alla sua lancia spezzata a favore del superministro europeo dell’Economia, cioè della definitiva cessione di sovranità in materia economico-finanziaria da parte dei singoli Stati. La prospettiva non piace nemmeno un po’ a Renzi, ma neppure lo impensierisce perché, come ha spiegato agli intimi nei giorni scorsi, «saranno tutti gli Stati ad affossare quell’ipotesi». La Francia ha confermato a stretto giro.

Il premier tuttavia ci tiene a sottolineare che «il problema dell’economia dell’Unione non è il superministro ma la direzione». Cioè di nuovo il rigore: «L’austerity non basta. Se una cura non funziona dopo otto anni si può parlare di acanimento terapeutico». Segno più chiaro che la primavera non porterà ramoscelli d’ulivo tra Roma e Bruxelles non potrebbe esserci.