Lo scorso luglio su questa Rubrica sollevavamo il problema di quanto fossero bad le Bad Bank, cioè di come ci fosse il rischio di nascondere il problema dei crediti deteriorati sotto un tappeto quasi sempre fornito dalla sfera pubblica. Il meccanismo ci sembrava problematico e perverso in partenza. In una fase che definire stagnante è riduttivo, che vi siano operatori specializzati che rilevavano quantità crescenti di crediti deteriorati per recuperane una parte è cosa credibile. Peccato che in molti casi queste operazioni presuppongano perdite minime per le banche e teorici profitti per le Bad Bank. Il risultato è alleggerire nell’immediato i bilanci degli istituti di credito e posticipare il problema del loro recupero. Tale processo in corso da tempo comincia a mostrare i propri limiti.

Come affermato da Morya Longo recentemente «i nodi stanno venendo al pettine» ed è giunto il momento di «guardare la realtà». Di 26 operazioni di recupero crediti censite da Scope Ratings, ben 17 hanno dato risultati inferiori alle attese e di queste alcune hanno raggiunto risultati inferiori di oltre il 50%. Lo strumento privilegiato a cui si è ricorso è la cartolarizzazione di questi crediti, impacchettandoli insieme ad altri prodotti finanziari per poi reimmetterli nel mercato con in aggiunta, spesso, una garanzia dello Stato.

Tra le società impegnate in questo recupero crediti c’è anche Amco, attore specificatamente pubblico. Tale fenomeno, dunque, coinvolge sia gli investitori che i cittadini, dato che sono implicate indirettamente garanzie e società pubbliche.
Tutte queste operazioni di pulizia dei bilanci bancari sono avvenute su pressione della banca centrale e hanno consentito di smussare le fragilità del sistema creditizio, ma ora rischiano di contare perdite importanti che si configurano, per buona parte, come una socializzazione delle perdite, tendenza che dal 2008 ha riguardato la maggior parte delle principali economie. Se poi si aggiunge l’attuale contesto di incertezza postpandemica le prospettive non migliorano certo. Negli ultimi 18 mesi in Italia le esposizioni bancarie a rischio sono aumentate.

L’insieme di crediti deteriorati e inadempienti (distinguo dal confine incerto) sono diventati circa 500 miliardi di euro, di questi, 300 sono ancora all’interno dei bilanci degli istituti, mentre 200 sono già nelle società veicolo specializzate per smaltirli (con le problematiche appena descritte). La pandemia lascia prevedere che tale contesto andrà peggiorando sia per i crediti ai semplici cittadini sia, soprattutto, per quelli alle imprese, in particolare a partire dal 2022. Infine, in questo quadro negativo, il governo sembra intenzionato ad approvare una proroga agli incentivi fiscali rivolti alle aggregazioni bancarie.

Aggregazioni che in qualche misura costituiscono non solo un consolidamento del settore, ma soprattutto un espediente per salvare istituti in difficoltà. In questo caso il provvedimento è rivolto all’incerta trattativa tra UniCredit e Mps come alle difficili prospettive di Carige. In poche parole, il sistema bancario italiano è in affanno e necessiterà di tempo e di ulteriori sostegni pubblici per trovare nuovi futuribili equilibri. Sicuramente la concentrazione bancaria aiuterà a consolidare patrimonialmente gli istituti e renderli più competitivi nel paese e a livello globale, ma con quale prospettiva? Un nuovo rinvio delle contraddizioni fino alla prossima crisi?

A noi sembra che il problema rimanga l’enorme montagna di debito mondiale che è parte costitutiva di un sistema finanziario sempre più pervasivo e speculativo. Il ruolo dello Stato è sempre più strategico, nei fatti, ma il problema è per fare cosa. Continuare a mettere toppe costose a un sistema finanziario, incapace di avere una prospettiva credibile, oppure perseguire una svolta che sperimenti una nuova agenda e che indichi una inedita e virtuosa dinamica economica?