In queste ultime due settimane le principali banche centrali hanno effettuato una specie di tagliando alle loro politiche monetarie. Si conferma un panorama non del tutto convergente e si delineano alcune possibili scelte degli alchimisti della finanza contemporanea. La guerra commerciale in corso, che perlomeno si può definire di posizione, con annunci belligeranti seguiti dalla ricerca di compromessi, si svolge su un piano inclinato fatto di protezionismo e dazi. I conflitti commerciali di questa natura comportano generalmente anche tensioni valutarie. Non a caso Trump ha cominciato a lanciare accuse su presunte manomissioni dei cambi per alcune monete chiaramente in concorrenza sul piano globale. In effetti, se la competizione inizia a esser declinata su una base locale, il valore delle monete aumenta ulteriormente di peso specifico.

Apparentemente le banche centrali registrano le controtendenze positive sul piano della crescita e dell’inflazione e dopo anni di espansione della base monetaria sembrano aver imboccato una strada più restrittiva di normalizzazione. Ma ecco che intervengono le tensioni sui dazi e le paure di una ricaduta negativa dell’azione politica sui mercati. La politica, d’altronde, da un po’ retroagisce sulla sfera economica, modificandone il profilo. Così l’inversione di tendenza della Banche Centrali tanto annunciata e parecchio temuta, sta avvenendo con cauta moderazione. Non fosse altro che per le ricadute sulla mole di debiti emessi nelle principali divise a partire dal dollaro. La Bce conferma la fine del Quantitative easing nel 2018 , ma ribadisce che i tassi resteranno a lungo bassi, la Fed annuncia due ulteriori aumenti entro l’anno, ma per il momento conferma il tasso in vigore, la Banca centrale britannica aumenta i tassi come non si vedeva dai tempi pre-crisi e anche quella indiana li alza. La Banca del Giappone, invece, conferma il proprio Qe probabilmente fino al 2020.

L’inflazione nel Sol Levante è data in calo e lo yen si conferma moneta che nel suo contenersi favorisce non solo i prodotti nipponici, ma anche acquisti globali della propria divisa per poi investire dove il rendimento è diventato più alto. Ecco il combinato di potenziali guerre commerciali e finanziarie. Oltre al Giappone vari paesi a guida nazional-populista, dunque, non nascondono la volontà di imbrigliare le rispettive banche centrali per ricondurle a un disegno ancorato territorialmente, ambendo a renderle funzionali alla nuova scala in cui si sta sviluppando la competizione. Non importa che si registrino dati incoraggianti sull’inflazione, quello che oggi conta è una finanza pubblica parzialmente sganciata dai diktat di un’economia aperta e globale e tesa a favorire le postazioni nazionali, magari senza intralciare troppo i rispettivi player industriali globali.

Le tensioni in corso hanno dato vita a nuove fibrillazioni, a nuove e inedite alleanze, dove la Turchia di Erdogan apre alla Cina in chiave anti-Usa e al contempo promette di riprendere il controllo della politica monetaria, alle prese con un’inflazione che ormai viaggia pericolosamente oltre il 15% contrastata per ora con tassi elevati. Trump non fa mistero che gli piacerebbe poter prendere decisioni simili per la sua Fed, che in questo momento produce un differenziale sul costo dei bond con la Germania inspiegabile se rapportato ai livelli di inflazione registrati. Ecco, dunque, le pulsioni a riprendere in mano la politica monetaria a stelle e strisce.

Insomma appare in corso l’affermazione di quello che, prendendo in prestito le parole dell’economista francese Jean Pisani-Ferry, viene definito «regionalismo finanziario», cioè un nuovo perimetro entro il quale affinare e rendere apparentemente più digeribili le condizioni economico-finanziarie iper-competitive affermatesi durante la globalizzazione.