I quasi cento romanzi che compongono la Commedia umana di Balzac, ha dichiarato una volta Henry James, costituiscono una delle imprese più grandiose e imperscrutabili dell’arte occidentale. A contraddistinguerli è soprattutto la sbalorditiva quantità di personaggi – in totale più di duemilatrecento – che Balzac descrive senza badare a spese e non di rado fa ricomparire, da un’opera all’altra, per arrivare a rappresentare un intero universo sociale con la precisione di un segretario. Eppure, se ascoltiamo le ultime interviste rilasciate da Peter Brooks, questo strabiliante continente narrativo rischierebbe oggi di inabissarsi, sommerso da un’ondata di indifferenza che proviene in particolare dal mondo anglofono.

Salvaguardia e oltre
A una simile minaccia, Brooks reagisce con un saggio – Vite di Balzac (traduzione di Giuseppe Episcopo, Carocci, pp. 218, € 18,00) – che ci appare come un ingegnoso tentativo di salvaguardia e al tempo stesso come un ampliamento delle precedenti esplorazioni critiche. Se nell’Immaginazione melodrammatica e in Trame Brooks aveva richiamato l’attenzione sui dispositivi teatrali e sui motori di funzionamento della gigantesca macchina narrativa della Commedia umana, Vite di Balzac si propone invece come un’«antibiografia», che parte dall’identikit di nove personaggi-chiave per poi spiare il romanziere «da sopra la spalla», durante la creazione, fino a risalire alle sue «ossessioni personali».

Nonostante si esponga al rischio di istituire connessioni fuorvianti fra la vita dello scrittore e le sue opere, l’esperimento di Brooks non risulta del tutto azzardato dal momento che anche Ernst Robert Curtius, nella sua biografia tematica su Balzac, aveva stabilito fin dal 1923 una sostanziale coincidenza fra la psicologia dei personaggi della Commedia umana e quella del loro inventore. E per quanto non aggiunga nulla di decisivo all’indagine di Curtius, l’operazione condotta da Brooks si dimostra senz’altro in grado di risollevare l’interesse dei lettori privilegiando la ricostruzione degli intrecci narrativi. Brooks ci racconta innanzitutto la storia del personaggio sotto inchiesta, pedina le sue sorprendenti riapparizioni e segnala i suoi rapporti con altre figure di spicco. Anche chi non ha mai letto nessuno dei romanzi della Commedia umana finisce così per lasciarsi catturare dalla singolare fisionomia dei suoi abitanti e si convince a seguire il filo delle loro peripezie.

Ci si ritrova, per questi versi, in un labirinto attraversato da creature per lo più monomaniacali, assetate di ambizioni d’ascesa sociale (Eugène de Rastignac e Lucien de Rubempré), ansiose di pilotare e vivere il destino altrui (Gobseck, Vautrin e Facino Cane) oppure intente a reprimere una divorante passione (Antoinette de Langeais e Henriette de Mortsauf), ma molto più spesso accomunate dalla necessità di vedere e sapere tutto (Raphaël de Valentin). Una dilagante e faustiana tensione a conoscere nel dettaglio, che tanto Brooks quanto Melanie Klein chiamano «epistemofilia», è inscritta nel codice genetico della Commedia umana. Perché la maggior parte dei suoi personaggi non è soltanto dotata di una «seconda vista» che li rende ancor più abili di Sherlock Holmes nel decifrare gli enigmatici segni della realtà. Molti di loro risultano anche ossessionati dal bisogno di impossessarsi dei segreti che circondano le tre grandi forze madri regolatrici dell’esistenza.

«Conoscenza, Potere, Desiderio». A contatto con le potenze supreme, che per Balzac formano una triade indivisibile, si scatena tuttavia il paradosso generale sceneggiato nell’emblematica vicenda di Raphaël de Valentin. Quando l’insaziabile protagonista della Pelle di zigrino accetta la magica pelle che gli consente di esaudire ogni desiderio, in realtà si mette in trappola. Ad ogni richiesta, il miracoloso talismano si restringe accorciando anche la vita del suo possessore, che si condanna allora a non desiderare più nulla nel vano tentativo di ritardare l’arrivo della propria fine. La sconfitta di Raphael, secondo Brooks, ci svela uno degli arcani dell’universo di Balzac, dove l’ansia di conoscere e possedere coincide con una forza totalitaria ma demoniaca e devastante, «a somma zero», capace di ritorcersi contro gli individui fino a ridurli alla paralisi. Anche per questo, come già avveniva in Trame, il costante punto di riferimento delle Vite di Balzac resta Freud, che in Al di là del principio di piacere salda l’impulso vitale d’amore e di scoperta con la sua opposta pulsione di morte.

Se le cose stanno così, la nuova edizione dei Martiri ignorati di Balzac (a cura di Alessandra Ginzburg e Mariolina Bertini, Clichy, pp. 128, € 14,00) si presenta come un ideale banco di prova per la teoria. È proprio fra le pagine di questo racconto, concepito qualche anno prima di mettere mano alla Commedia umana, che ritroviamo Raphaël de Valentin al tavolo di un caffè, già «avido di conoscenze», in conversazione con altri sei pensatori che ci vengono annunciati, attraverso meticolosi profili preliminari, come un concerto di voci d’opera. La teatralità melodrammatica della situazione, ha detto Brooks, ci assicura che Balzac sta per mettere in scena un problema legato alle ignote energie che muovono il mondo. E infatti, anche se la voce «cavernosa» di Raphaël resta soffocata dal coro delle opinioni altrui, i discorsi dei suoi interlocutori assumono ben presto il tono di una titanica sfida contro i massimi sistemi. «Siamo gli operai di un’opera che non conosciamo bene». Per contrastare l’inesorabile lacuna, suggerita dall’accento baritonale del matematico Grodninsky, ognuno dei partecipanti si impegna a turno a investigare attraverso un aneddoto filosofico la natura e gli effetti del pensiero umano. A poco a poco la nota dominante delle disquisizioni si fa più chiara e riusciamo a comprendere che tutti gli interventi, segnati dal leitmotiv del «veleno» e del «diavolo», sono pezzi di repertorio e arie di bravura, orientati a riportare vicende di individui impazziti o deceduti sotto la tirannia di un’idea violenta, terrificante o persecutoria. Ma è soltanto nell’ultimo racconto, affidato alla verve tenorile del Dottor Physidor, che la tesi si precisa fino a rivelare tracce di parentela con la magia e le scienze occulte.

Pensieri tossici
Nel suo aneddoto Physidor riferisce le divagazioni di un ignoto medico negromante – personaggio quantomai «romanzesco», incastonato nell’altrettanto romanzesca cornice di una sinistra dimora – secondo le quali il pensiero costituirebbe un fluido tossico, «vero angelo sterminatore dell’umanità». Controllare la sua sostanza materiale e torrentizia, di cui sono fatti anche i desideri e le passioni, significa avere in pugno il destino di un’anima: perché il pensiero e le passioni possono arrivare a martirizzare e perfino ad annientare con l’impeto di un fulmine o di un veleno. L’unico antidoto contro l’incombente minaccia sembrerebbe risiedere in una assoluta e salutare immobilità.

Di fronte alla sconcertante conclusione, possiamo limitarci a considerare il racconto come una sorta di retroscena in cui si aggira una tipologia – il martire del pensiero – che troverà ampia rappresentazione sul palcoscenico della Commedia umana. Non sembra invece il caso di spingersi oltre, come ha fatto Brooks, e riconoscere nelle idee dei personaggi gli «schemi ossessivi» della mentalità del loro creatore. Il percorso ci condurrebbe a ripetere, assieme a Henry James, che la vita di Balzac è soltanto la causa «inconsapevole, agitata e confusa» di un progetto più «oggettivo», chiamato «letteratura».