Ad un libro recente (Pier Groups. Art and Sex long the New York Waterfront, University Park, The Pennsylvania State University Press, 2019, $ 34.95) – l’esito finale di una ricerca tradottasi anche in una mostra al Leslie-Lhoman Museum nel 2012 – Jonathan Weinberg consegna la sua compiuta riflessione su un luogo mitico della cultura newyorkese fra i Settanta e gli Ottanta, e cioè il fronte d’acqua aperto a ovest sull’Hudson. Sequenza ritmica di moli e d’architetture industriali, già snodo per il traffico di merci in partenza da Manhattan, l’area – coll’allungarsi del secondo dopoguerra, la città franata in una crisi fin sull’orlo del collasso finanziario – divenne ritrovo per la comunità gay, un immenso dungeon in abbandono, aperto di giorno al nudismo balneare, col buio agli incontri anonimi e furtivi di una società propensa a rêveries sadomaso e a durezze leather intenerite dai bagni di luna.
Si animò così un eden rugginoso di lirismo rovinista, fra capannoni deserti e pontili sbiancati, lamiere aperte su cieli notturni, facciate Beaux-Arts corrose dalla salsedine e dalla povertà delle casse pubbliche: sullo sfondo la corrente precipitata verso il mare, l’aria fresca dell’estate, il vento gelido d’inverno.
Un elemento, quello liquido, presente con coerenza nelle memorie riservate al cruising fra i depositi in affaccio sul fiume; e registrato pure nelle pagine di Weinberg, ricche di testimonianze di prima mano. Basta rifarsi a The Motion of Light in Water, struggente diario erotico di Stephen Delany – uscito nel 1988 – che al vagare fra gli imbarcaderi consacra brani carichi d’umori; o riscorrere il porno di Arch Brown girato in studio e in situ nel ’79, per documentare – sotto al titolo malizioso di Pier Groups – il galateo condiviso nel terrain vague all’ombra della West Side Highway: film di ‘storie’ e ‘personaggi’ che, in divagazioni libere da orge affollate, si attarda estatico sullo scintillio dei mulinelli, sul crepitare spumoso dei flutti.
Proprio l’aspetto liminare di simili spazi – il loro protendersi, disperato e impavido, per decine di metri sopra il pelo dell’acqua – avrebbe attratto, nello stesso torno d’anni, la comunità artistica ‘al maschile’ raccolta fra le due sponde del Village, in eventi di gruppo o in avventure autonome, in spedizioni curiose o in flâneries sessuali: da Robert Whitman a Vito Acconci, a Tava, per arrivare a Gordon Matta-Clark, destinato a incidere – al termine di una serie di performances e interventi – i tagli affilati del suo Day’s End nelle pareti dell’hangar sul Pier 52, a nord di Christopher Street, rimbombante al tempo per il cigolare delle catene e per lo scricchiolio di anfibi secondo un fetish alla Tom of Finland.
Ancora luce e correnti in una fra le azioni di maggior atmosfera consegnate al canone novecentesco dal concettuale traslato su scala urbana; e d’altra parte AA Bronson (padre di altre icone celebri per la fine del secolo, insieme al collettivo General Idea) avrebbe segnalato – in un souvenir di neofita dedicato alla spedizione condotta al fianco di Ray Johnson, precedente di pochi mesi rispetto alla titanica impresa del collega – quanto l’interazione armonica fra cielo e mare assecondasse, clemente, la vita in quel labirinto, fitto di scorci inediti, promiscuità inaudite, improvvisi détours del desiderio.
Fa bene dunque Weinberg a dettagliare per il lettore odierno, ormai estraneo a esperienze siffatte (cancellate dal concorso, in sequenza, della pandemia dell’HIV e del progetto di riqualificazione di Battery Park), come ogni indagine intorno ai Piers fosse allora una caccia rivolta verso ‘a specific moment and place’: quasi a suggerire che in quei vagabondaggi si stesse consumando la parabola di un certo modernismo, inauguratosi un secolo prima sulle altalene malferme dei bateaux-ateliers impressionisti, fra i prati verdi di colazioni in crinolina lungo il letto della Senna. Del resto, la ‘partie de campagne’ di Renoir fils comprova quali ronde sentimentali si celassero in gite pittoresche (sotto al riserbo di un’educata borghesia) alla ricerca di amori fuggevoli e di motifs ancor più evanescenti, lontano dal trambusto di una Parigi fumosa. Non stupisce pertanto sulla battigia dell’Hudson ritrovare assai prossime intermittenze del cuore, zelanti poste attorno a un corpo attraente o all’inseguimento di uno sguardo luminoso, il cui estenuato romanticismo doveva però infiammarsi dei pericoli intrinseci ai luoghi, bande perdute di ragazzi criminali, furti silenziosi di abiti e denari, lo stesso rischioso procedere fra buche e tavole sconnesse, altezze minacciose e cadute nell’acqua gelida.
Del torneggiare sregolato e intrepido al riparo di quelle strutture resta una colossale galleria fotografica, affine per locations e per presenze, riconducibile a sguardi e a intenzioni variegate, da distendersi sull’arco di una cronologia di determina incerta: si pensi agli scatti ‘rubati’ di Frank Hallam, alle quinte casuali – una lattina, l’angolo di un muro – usate a mo’ di nascondiglio; o all’esuberanza delle messe in scena di Leonard Fink e Stanley Stellar, spudorate nell’affastellarsi compulsivo di simboli fallici; o si torni alla ridondante pornografia di Arthur Tress, propensa a tradurre racconti leggeri d’après Duane Michals in minacciosi intercorsi fra probabili sconosciuti.
Voce unica e schiva, in un coro tanto baritonale, è quella di Alvin Baltrop, a cui il Bronx Museum intitola una retrospettiva, proseguendo così nell’intento di mappare le personalità legate all’immensa periferia newyorkese: il fotografo, infatti, nacque a nord di Manhattan nel 1948 e dopo aver partecipato alla guerra del Vietnam come medico nella Marina, si ritrasferì definitivamente in città. Dapprima taxista, occupato in diverse imprese artigianali, abbandonò il miraggio di una qualche stabilità accanto alla fidanzata Alice per vivere radicalmente la realtà dei Piers: comprato un furgone spese vicino ai moli la maggior parte delle sue ore, fra 1973 e 1986, facendosi presenza stabile sulla scena gremita di quei capannoni.
Curata da Antonio Sergio Bessa, la mostra la mostra – The Life and Times of Alvin Baltrop, fino al 20 febbraio 2020 – risarcisce la sfortuna espositiva di una figura che si è vista riconoscere solo dopo la morte un qualche peso in termini di visibilità (cresciuta tuttavia in maniera esponenziale nel corso degli ultimi anni); e, unitamente, celebra l’acquisizione delle carte dell’artista, entrate nel 2014 nelle raccolte dell’istituzione newyorkese, un fondo disordinato, ingombro di materiali, negativi, tracce d’esistenza. Proprio nel confronto con tale archivio, il pur ricco percorso suscita nondimeno una qualche perplessità. Dissuona infatti che – nell’impossibile datazione degli originali, per lo più mai sviluppati e lasciati dall’autore senza indicazioni precise sulle circostanze di ciascuna presa – l’ampia sala, prevista per accogliere le opere, ne pieghi la sequenza a uno svolgimento ‘narrativo’: dopo l’incipit epigrafico sulle immagini di giovani marinai spediti a combattere alle porte di Hanoi, si apre così una sezione consacrata ai moli deserti di vita, riempiti poi – nei segmenti successivi – di figure, complici o inconsapevoli; la mostra chiude infine sulle istantanee dedicate al ripescaggio di un cadavere e sulla demolizione dei depositi sull’Hudson.
Nelle poche note di sua mano (fra cui la prefazione a una raccolta mai conclusa di suoi scatti), Baltrop descrive un’ossessiva frequentazione di quelle superfici, il ripetersi routinario, seriale, rituale di una pratica voyeuristica spinta all’estremo di lunghi appostamenti, il corpo sospeso al soffitto per mezzo di un harness autoprodotto: è un ritmo dell’Eros che si perde nell’esposizione odierna e che, in assenza, suggerisce un qualche tradimento degli aspetti conturbanti nell’oeuvre del fotografo. Tuttavia – lo dice Bessa con sagacia – risalta evidente la tenuta di un linguaggio che, fra i moventi al Desiderio, conta il languore vivissimo di una solitudine metropolitana; ed è allora commovente soffermarsi sulle stampe, intime e minuscole a un tempo, appese alle pareti del Bronx Museum, fingendosi col pensiero schiacciati dai grattacieli che, fra la midtown e la nuova downtown, separano la vista dall’arco celeste del cielo.