Un libro piuttosto suggestivo questo A sud del Tropico del Cancro, scritto da Roberto Chiarvetto e Michele Soffiantini. Beninteso, col Tropico del cancro di Henry Miller non ha niente a che fare: anzi, quel sud del Tropico probabilmente è un titolo piuttosto ironico. Mentre il romanzo di Miller, pubblicato a Parigi nel 1934, è il racconto delle vicende erotiche e travolgenti dell’autore nella Parigi di quegli anni, quando ci viveva lo scrittore americano – ed era il simbolo (lo disse lui) della «malattia della civilizzazione» degli anni trenta, alludendo all’Oswald Spengler del Tramonto dell’Occidente –, questo libro invece dischiude un’altra prospettiva sullo stesso periodo. Innanzitutto, riguarda in concreto il parallelo – di 23,5 gradi di latitudine Nord – che copre molti paesi africani, in particolare la Libia, l’Algeria, il Ciad. Ma soprattutto ricostruisce dei ben diversi anni trenta, inquadrati in una storia politica, e in particolare coloniale, per niente semplice. Infine, riguarda paesi di una bellezza straordinaria, ma molto diversi dalla realtà urbana di una grande capitale come Parigi.

È soprattutto una storia della Libia, paese a nord del Ciad, quando era una colonia dell’Italia fascista e il governatore era Italo Balbo. Sono vicende solo in parte note, all’epoca e poi fino a oggi. Lo Stato maggiore dell’Aeronautica che ha pubblicato il libro (Edizioni Rivista Aeronautica, pp. 320, e 25,00) possiede una grande quantità di documenti, foto, carteggi, mappe, che per il centenario dell’Aeronautica militare ha tirato fuori dal suo archivio e ha usato molto bene per spiegare, come dice il sottotitolo, le Esplorazioni aeroterrestri militari nel Deserto Libico 1930-1939: ovvero la vita in quel paese, ma anche quella dei piloti e di coloro che si occupavano dei mezzi di trasporto (automobili e camion) nel deserto; le loro attività, le loro lettere, i rapporti ufficiali e quelli ufficiosi; l’esperienza dei fotografi e degli esperti di cinematografia, che nel deserto seguivano tutto ciò che accadeva; le iniziative dei medici, topografi e geologi che parteciparono alle esplorazioni: a cominciare da Ardito Desio, direttore dell’Istituto di Geologia di Milano (amico di Balbo dai tempi dell’università), diventato molto celebre negli anni cinquanta per aver diretto le missioni sull’Himalaya. Desio ha lasciato un archivio importante, conservato a Udine e curato dalla figlia Maria Emanuela. Da quelle carte si possono anche ricostruire le sue vicende in Libia, dove andò giovanissimo, già nel 1926 (era nato nel 1897) e tornò quando aveva quasi quarant’anni. Fu lui tra l’altro a identificare il primo «petrolio libico», e proprio con Balbo, nel ’38. Il geologo viene mostrato (p. 163) con una «tipica» tagelmust bianca, la sciarpa dei tuareg.

In realtà è tutto il paese a venire illustrato (in bianco e nero, ovviamente): la vita e i lunghi viaggi nel deserto, i grandi contrafforti di roccia, qualche volta le oasi, come quella molto importante, di Ozu, all’estremo sud. E soprattutto c’è Balbo, governatore della Libia a partire dal 1934, ma anche celebre asso del cielo e organizzatore dell’aviazione militare italiana. Balbo aveva una passione per gli aerei, e li usava anche per attraversare e studiare tutto quel paese, in particolare le zone più impervie e difficili da raggiungere via terra. Del resto, pagò duramente questa sua passione: come si sa, nel 1940 il suo aereo venne abbattuto proprio mentre sorvolava Tobruk.

I suoi scopi erano soprattutto militari. L’aveva spiegato anche in un discorso alla Camera dell’aprile 1931, quando era ministro dell’Aeronautica e non era ancora arrivato in Africa: «Le colonie si possono tenere sotto un più profondo ed efficiente controllo sorvegliandole dal cielo. Se questa concezione finirà, come spero, per prevalere, l’aeroplano adoperato su larga scala risparmierà molte truppe bianche e di colore». A giugno di quell’anno, partendo da Roma, per confermare quanto aveva detto, iniziò il primo sorvolo del deserto libico, arrivando fino ai margini nord del massiccio del Tibesti.

Ma gli esiti di quelle esplorazioni, come ora si può constatare bene, non erano soltanto militari. Erano, anzi, innanzi tutto politici; e poi geografici e climatici, di analisi del territorio, coloniali – nel senso di gestione di un rapporto con le popolazioni locali. Lo si vede grazie a un importante documento finora sconosciuto (perché tenuto segreto), eppure di grande rilievo: la Ricognizione ufficiale del viaggio che Balbo fece tra il 23 e il 27 luglio del 1936 e che fu stesa dal governatore con la collaborazione dei suoi uomini; ritrovata nell’archivio della famiglia, è stata consegnata di recente all’Archivio centrale dello Stato. Dei bravi archivisti l’hanno trovata e identificata e ora nel volume A sud del Tropico del Cancro ne vengono pubblicati alcuni dettagli e un riassunto (pp. 167-176), che ricostruiscono quel viaggio. Gli aerei erano tre, e attraversarono tutta la Libia verso il sud. La partenza avvenne dall’aeroporto di Tripoli e l’arrivo a quello di Bengasi: quattro giornate di volo, per circa 4500 chilometri in tutto. Balbo era accompagnato dai suoi uomini: ben otto aviatori sui quattordici dell’aeronautica presenti avevano partecipato con lui alla celebre trasvolata nord-atlantica del 1933. In più, c’erano medici, tecnici e Desio.

Il governatore della Libia voleva capire bene come era possibile modificare i confini con il Ciad e con l’Algeria. Pensava cioè di ritoccare quelli che esistevano già, rivedendo gli accordi stabiliti, a proposito dei reciproci interessi in Africa, prima nel luglio 1934 con la Gran Bretagna, poi nel gennaio ’35 col primo ministro francese Laval. Importante era stato soprattutto l’incontro tra Laval e Mussolini, di cui avevano parlato anche i giornali. Quegli accordi non erano stati poi siglati da una «convenzione», che pure era prevista: qualche mese dopo, nel ’35 il duce scatenò la guerra in Etiopia, e sia la Francia che la Gran Bretagna avviarono delle sanzioni contro l’Italia. Di conseguenza, le decisioni su quella «convenzione» rimasero in sospeso e i nuovi confini non vennero neanche più discussi.

Di qui appunto l’atteggiamento piuttosto aggressivo di Balbo nel 1936, a proposito dei confini della sua Libia. La «ricognizione» aerea ebbe soprattutto lo scopo di capire, e di far capire a Mussolini e al ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, come li si poteva modificare per ottenere dei precisi risultati: in particolare magari cercando di gestire le strade carovaniere che attraversavano l’Africa e conducevano fino al Sudan e, di conseguenza, all’Etiopia, attraverso tutto il continente. Balbo era ambizioso e voleva una forte presenza sul territorio. La sua operazione però terminò nel nulla: Mussolini non aveva intenzione di riparlare di quei confini e tanto meno della loro modifica: non voleva, e non poteva, ridiscuterli con Francia e Gran Bretagna, che erano diventati paesi ostili. Ovvero non voleva aumentare gli attriti che c’erano già stati per l’Etiopia. Anche per questo l’esplorazione di Balbo rimase segreta e il suo rapporto, pur stampato, fu bloccato.

Nel 2015 Chiarvetto e Soffiantini, insieme ad Alessandro Menardi Noguera, avevano pubblicato sempre con l’Aeronautica un libro molto interessante (In volo su Zerzura), rifatto poi nel 2018 in un’edizione in inglese ancora più rilevante sia per la documentazione sia per le foto, molte delle quali a colori. Era stato il risultato di un’ampia ricerca sulle spedizioni italiane nel 1932-’34. Gli autori erano andati a caccia di un’oasi misteriosa (e perfino leggendaria fin dal Quattrocento), Zerzura, vicina a Cufra, nel sud del deserto libico: oggi non esiste nemmeno più, perché l’acqua è venuta a mancare e le piante sono state bruciate dal sole; ma a cercarla nel passato erano stati in tanti, da un esploratore ungherese, László Almásy (per intenderci, uno dei protagonisti del Paziente inglese di Michael Ondatije) al celebre naturalista francese Théodore Monod e ad alcuni inglesi. E poi, appunto, gli aviatori e gli ufficiali italiani, e anche in quel caso in una maniera fino al 2015 ben poco conosciuta.

Questa del 2022 è quindi una ricerca sugli anni successivi al 1934; e in particolare proprio su Balbo, il suo gruppo di adoranti collaboratori e le strutture che egli mise in piedi: notevoli per esempio le pagine sugli aeroporti e le piste d’atterraggio che riuscì a costruire, gli aerei del tutto funzionali ai viaggi nel deserto che mise insieme, gli itinerari per camion e macchine di vario tipo, per attraversare il deserto, le truppe che riuscì a organizzare. In quest’ultimo caso, è interessante il capitolo sulle «compagnie sahariane», composte da ufficiali italiani e da molto personale locale, soprattutto arabi e berberi. Si può semmai fare un’osservazione: sarebbe molto utile capire in dettaglio, se possibile, quali furono le reazioni degli «indigeni» a Balbo e agli ufficiali italiani. Balbo in Libia cercò di difendere in tutti i modi gli arabi, in particolare dal razzismo che prese piede in Italia nel 1938 e che riguardò anche loro. Sarebbe perciò interessante capire quale fu la risposta delle truppe, i meharisti, gli ascari libici e in particolare berberi.

Come si vede, ci si trova davvero all’opposto, rispetto al libro di Henry Miller. Quelli di Balbo furono anni trenta non certo travolti dall’erotismo, ma piuttosto autoritari e con una forte struttura. In questo modo, siamo però anche molto più vicini ai tempi moderni, per esempio al duro conflitto che sotto Gheddafi ci fu tra Libia e Ciad per circa dieci anni fino al 1987: portò alla nascita di una superbase aerea proprio a Cufra, e perfino alla presenza di reparti militari francesi più o meno segreti, presenti ancora al Nord del Ciad, a sud del massiccio del Tibesti sorvolato da Balbo.