L’11 luglio del 2012 il palazzo di giustizia di Buenos Aires è stato assediato da un gruppo di tifosi in gialloblu. Rafael Di Zeo, ex capo ultrà della curva più temuta del Paese, veniva assolto dall’accusa di associazione a delinquere e i suoi erano andati ad accoglierlo. «È la banda di Rafa che torna dalle vacanze – cantavano – siamo quelli del Boca, quelli che ammazzano per questi colori e i traditori ce lo possono succhiare». Da quando nel 1893 si giocò la prima partita del campionato argentino, gli ultras hanno ucciso 267 volte. Dodici delle quali durante l’ultima stagione e due solo domenica, quando la banda del Rafa ha approfittato dell’amichevole col San Lorenzo per mantenere la promessa e inscenare una sparatoria fuori dallo stadio, con un’altra fazione della loro stessa squadra.
Ciccioni, sudati, arroganti e pistoleros, da queste parti i violenti del calcio li chiamano barra bravas, un epiteto che potrebbe essere tradotto come «il fronte cattivo». «Ma non andrebbero chiamati così, perché in realtà sono aziende del crimine organizzato», dice il segretario per la Sicurezza, Sergio Berni, assediato dai parenti delle vittime indignati, veri tifosi e residenti che mostrano più di 100 bossoli raccolti sull’ultimo scenario della faida del Boca.
Gli scontri sono avvenuti durante un torneo che doveva fare da test per la sicurezza. Il futbol argentino non ha superato la prova e ora è stato prorogato il divieto di andare in trasferta per i supporter, che ha già segnato la fine dell’ultimo campionato. La colpa è dei dirigenti di club, insiste Berni, «hanno creato un mostro dalle mille teste e ora non hanno il coraggio di affrontarlo». Un parere che infastidisce il presidente del Boca, Daniel Angelici, che risponde: «Gran parte della responsabilità è dello Stato, dove non si agisce mai seriamente».
Hanno tutti ragione, sono tutti complici. Complici di un sistema criminale per cui la barra è azionista della squadra che sostiene e ha voce in capitolo, più o meno esplicitamente, su chi va in campo e chi no. Un sistema dove i gruppi ultrà possiedono quote nei cartellini. Prendono percentuali sulle cessioni e arrotondano gestendo i parcheggi alle partite, vendendo il merchandising ufficiale, bagarinando e spacciando coca. In una nazione in cui l’1,5% della popolazione è tesserato come calciatore, controllare una curva significa avere ascendente sulle masse, il potere delle armi e una posizione da difendere.
I legami tra ultras e politica sono noti. Nel 2010 il Partito Operaio organizzò una manifestazione contro il precariato nelle ferrovie. Al sindacato Union Ferroviaria, in combutta con l’azienda dei trasporti, la cosa non piacque e fermarono il corteo a colpi d’arma da fuoco. Uno studente 24enne fu ucciso e altri tre manifestanti feriti. A sparare fu un ultras di Defensa y Justicia, assoldato a proposito. Due mesi dopo, migliaia di baraccati occuparono un parco alla periferia di Buenos Aires, per far fronte all’emergenza abitativa. Poteri non ancora identificati in sede giudiziaria arruolarono alcuni sicari. Le telecamere mostrarono tifosi dell’Huracan e del Laferrere sparare sulle famiglie. Ci furono 4 morti.
La settimana scorsa il Racing di Avellaneda voleva comprare il colombiano Vargas dall’acerrimo rivale, l’Independiente, che ha lo stadio a 200 metri dal suo. Il capo ultrà di questa seconda squadra, Pablo il Bambolotto Alvarez, ha scritto su Facebook: «Se Vargas va al Racing gli sparo 3 volte. Un colpo alla gamba destra e uno alle palle». Al conto manca un proiettile, ma Vargas ha comunque preferito firmare per il Rosario Central. Il presidente dell’Independiente, Javier Cantero, è stato il primo dirigente a dichiarare guerra agli ultras. Per farlo, ha chiesto aiuto alle autorità e agli altri club, ma nessuno ha risposto. La squadra è retrocessa in serie B e nell’ultima assemblea societaria il Bambolotto Alvarez ha guidato un’orda che ha scacciato Cantero dall’aula, scagliandogli contro le sedie della platea.
Nel Boca, il gesto più coraggioso compiuto da Angelici è stato ammettere l’esistenza della barra. Le tribune della Bombonera sono ostaggio dello scontro tra Di Zeo e quello che fu il suo delfino: Mauro Martin. Nel 2007 Di Zeo fu messo dentro per omicidio e abdicò in suo favore. Una volta finita «la vacanza», il discepolo si è ribellato al padre. Ora tocca a Martin affrontare la corte. Rischia 25 anni per aver ammazzato di botte il vicino di casa di suo cognato: il cane della vittima la faceva sul marciapiede. In attesa del verdetto, la lotta per un trono sugli spalti va avanti. Domenica sono stati esplosi 100 colpi, la prossima settimana inizia il campionato.