Si radicalizza la lotta dei bahraniti di pari passo con la crescente intensità della repressione attuata dalla monarchia assoluta. Ieri il raggruppamento che include i principali partiti dell’opposizione – Al Wefaq, Waad, Al Qawmi e Wahdawy – ha diffuso un comunicato di forte condanna delle nuove gravi restrizioni alla libertà di manifestazione pubblica del dissenso contro re Hamad bin Isa al Khalifa. «Non ci viene più consentito di scendere in strada a Manama. Il 19 luglio il regime ha vietato due raduni pacifici nella capitale senza alcun motivo concreto se non quello di chiudere la bocca all’opposizione. Il diritto a protestare è garantito dalle leggi internazionali e non può essere vietato da qualsiasi autorità», denunciano le principali formazioni dell’opposizione.

Tuttavia questo linguaggio morbido non soddisfa più il movimento giovanile bahranita, deluso dai leader dell’opposizione che hanno creduto alle promesse di riforme e cambiamento fatte dalla monarchia di fronte all’accampamento di protesta a Piazza della Perla, nel febbraio-marzo 2011 (simile a quello di Piazza Tahrir al Cairo), spazzato via dalla polizia con l’aiuto di mille uomini di unità speciali inviate dall’Arabia saudita. Lo scontro si fa più acceso e assume sempre di più il carattere di un conflitto settario, tra la minoranza sunnita al potere e la maggioranza sciita da sempre discriminata in economia e in politica. Ad alimentare per primo il settarismo è proprio re Hamad che spiega le manifestazioni nel suo Paese per l’uguaglianza e la trasformazione della monarchia da assoluta a costituzionale, come «un progetto di Tehran volto ad espandere lo sciismo iraniano nella regione». Tesi che convince gli altri petromonarchi del Golfo schierati contro l’Iran e offre un appiglio agli Stati Uniti che si guardano dal fare pressioni sul fedele alleato re Hamad che in Bahrain ospita l’importante base della V Flotta americana, di fatto di fronte all’Iran.

Domenica la polizia ha arrestato i tre presunti responsabili del lancio (senza danno) di una bomba contro una moschea sunnita, la scorsa settimana a Manama, l’ultimo di una serie di attacchi con bottiglie molotov e ordigni rudimentali che prendono di mira soprattutto i commissariati e le forze di sicurezza nei centri abitati sciiti. Qualche giorno fa è stata colpita per la seconda volta in pochi giorni la casa di un influente deputato Abbas Isa al-Madi. Non ci sono state vittime ma i segnali sono inequivocabili. «E’ sempre più arduo tenere sotto controllo giovani che non vogliono vivere come i loro padri e nonni, discriminati e privati di diritti fondamentali. La repressione sta aggravando il clima», spiega al manifesto la giornalista e attivista dei diritti umani Reem Khalifa. Tutti ora guardano a cosa accadrà nelle prossime tre settimane fino al 14 agosto, data della sollevazione popolare chiamata dal neonato movimento “Tamarod”, analogo a quello egiziano che il 30 giugno ha organizzato al Cairo e in altre città gigantesche manifestazioni contro il presidente islamista Mohammed Morsi, sfociate poco dopo nel colpo di stato militare. Il 14 agosto è l’anniversario della partenza dei britannici dal Bahrain, nel 1971, ma i sovrani al Khalifa, in omaggio ai colonizzatori loro storici protettori, hanno invece scelto come data del Giorno dell’Indipendenza il 16 dicembre.

Il Bahrain però non è l’Egitto. Nel piccolo arcipelago le forze armate e di sicurezza sono composte in buona parte da mercenari sunniti di vari Paesi (persino del Pakistan) pagate per servire la monarchia. Senza contare che l’Arabia saudita è pronta ad intervenire di nuovo per spazzare via qualsiasi sogno di libertà e uguaglianza. Governo e polizia hanno ammonito la popolazione dal prendere parte alla sollevazione chiesta da Tamarod-Bahrain in un comunicato diffuso il 4 luglio. «Reagiremo nella maniera idonea a qualsiasi piano volto a mettere a rischio la sicurezza e la stabilità del Paese», ha avvertito il ministero dell’interno. Ma il sostegno a Tamarod-Bahrain cresce sia tra le forze di opposizione moderate, come al Wefaq, che tra quelle più radicali che chiedono l’instaurazione della Repubblica, come al Haq di Hassan Mushaimeh (arrestato due anni fa e condannato all’ergastolo).