Sfogliare i giornali bahraniti è così rassicurante. Tutto va alla grande, scrivono, nel ‎regno di ‎re Hamad bin Isa al Khalifa. Le donne raggiungono traguardi importanti, ‎gli incontri dei ‎membri della famiglia reale in giro per il mondo sono coronati ‎sempre da successi. Il Bahrain ‎è un modello di coesistenza di fedi ed etnie. Ah, ‎anche l’economia va bene, malgrado il ‎deficit pubblico che i “fratelli” più ricchi ‎sauditi ed emiratini ogni tanto sono chiamati a ‎tamponare con miliardi di dollari. ‎E poi a primavera c’è il Gran Premio di F1 a mettere in ‎vetrina questo minuscolo ‎arcipelago del Golfo, con una superfice di appena 765 kmq. E ‎invece sotto questa ‎maschera di bellezza si nasconde un regime che si è fatto spietato, ‎senza ‎misericordia per gli oppositori, che negli ultimi anni ha attuato una ‎repressione ‎feroce, per spegnere con il pretesto della lotta al terrorismo e alle ‎‎”interferenze” del ‎nemico iraniano qualsiasi espressione di dissenso. Un clima che ‎abbiamo ‎registrato questa settimana durante la nostra breve permanenza nel paese. ‎In ‎Bahrain parlare con i giornalisti stranieri è estremamente pericoloso, chi lo fa ‎rischia ‎l’arresto. Nel “regno delle meraviglie” dipinto dalla stampa ufficiale anche ‎un tweet poco ‎rispettoso del regime imposto dai regnanti al Khalifa può costare ‎una condanna ad anni di ‎carcere. Per questa ragione siamo tenuti a mantenere ‎rigidamente anomime tutte le ‎nostre fonti e a non identificare in alcun modo le ‎persone che hanno accettato di ‎raccontarci come stanno le cose. Chi scrive ha ‎operato nell’ombra e senza l’accredito ‎giornalistico ufficiale che avrebbe ‎fortemente limitato la possibilità di svolgere un lavoro ‎d’inchiesta.‎

‎ «La stampa libera non esiste, l’unico giornale indipendente, al Wasat, è stato ‎chiuso dalle ‎autorità, i partiti politici d’opposizione, come il socialista Waad e lo ‎sciita al Wefaq, sono stati ‎sciolti e i loro leader incarcerati o costretti a vivere come ‎reclusi nelle loro abitazioni. Uno di ‎questi è Ebrahim Sharif (Waad). I difensori ‎dei diritti umani hanno subito la stessa sorte. ‎Uno di loro Nabeel Rajab, noti anche ‎all’estero, è stato condannato (a inizio anno, ndr) a ‎cinque anni di carcere perché ‎nei suoi tweet aveva criticato la monarchia e perché, secondo ‎la corte, aveva ‎diffamato il Bahrain denunciando detenzioni arbitrarie, torture e altri gravi ‎abusi. ‎E si viene arrestati anche se si criticano l’Arabia saudita e altri paesi arabi», ci ‎riferisce ‎un dirigente politico che ha pagato con la prigione la “colpa” di aver ‎avviato in passato una ‎campagna, assieme ai suoi compagni di partito, per ‎trasformare la monarchia assoluta in ‎costituzionale e per l’istituzione di un ‎parlamento vero, al posto di quello esistente in cui la ‎Camera bassa eletta non ha ‎alcun potere ed è soggetta al consiglio consultivo con membri ‎nominati dal re. «In ‎questo paese – aggiunge il nostro interlocutore – una minoranza, quella ‎sunnita ‎alla quale appartiene la famiglia reale, ha il controllo di quasi tutto in politica ‎ed ‎economia, mentre gli sciiti, la maggioranza della popolazione, sono dei cittadini ‎di ‎secondo livello». Tuttavia, precisa il dirigente politico, «in Bahrain non è in corso ‎un ‎conflitto di natura religiosa come afferma il regime. Gli sciiti lottano insieme a ‎non pochi ‎sunniti per l’uguaglianza e la democrazia sin dagli anni ’90 e l’hanno ‎sempre fatto sempre in ‎modo pacifico, prima e dopo piazza della Perla». ‎

‎ In quella piazza, che non esiste più perché distrutta per ordine di re Hamad, il 17 ‎febbraio ‎del 2011, seguendo l’esempio degli egiziani accampati in piazza Tahrir, i ‎bahraniti issarono ‎una campo di tende. La prima reazione del regime fu dura: 4 ‎morti e diversi feriti. Poi per ‎un mese la situazione restò relativamente tranquilla ‎con qualche scontro e tafferuglio solo ‎nei centri abitati più popolari. Piazza della ‎Perla divenne un laboratorio di idee e il motore di ‎manifestazioni pacifiche con ‎migliaia di persone. Il re, dopo aver dato qualche timido ‎segnale di disponibilità, ‎chiese improvvisamente l’intervento dello “Scudo del Golfo”, ‎l’alleanza difensiva ‎delle petromonarchie, e i soldati inviati dall’Arabia saudita e dagli Emirati ‎diedero ‎alle forze di sicurezza bahranite l’appoggio necessario per spegnere nel sangue ‎il ‎momento più alto di una possibile costruzione di un Bahrain, diverso e ‎democratico. I ‎morti furono decine, gli arrestati centinaia. I militari entrarono ‎anche negli ospedali per ‎catturare i manifestanti feriti. Negli anni successivi si ‎sono avviati tavoli di trattative, veri e ‎presunti, ma il re ha poi eliminato ogni ‎spazio al dialogo e aggravato la repressione al punto ‎da dichiarare illegale ‎qualsiasi forma di opposizione, sia che fosse un partito, un mezzo ‎d’informazione ‎o una semplice associazione. Il semplice dissenso è stato fatto passare ‎come «una ‎espressione dei tentativi dell’Iran di destabilizzare il regno». ‎

‎ Chi ci aiuta si dice «che almeno 800 oppositori, tutti sciiti, si sono visti ‎revocare la ‎cittadinanza e oggi vivono una condizione estremamente difficile ‎assieme alle loro famiglie, ‎perché privati di qualsiasi diritto». Al contrario le ‎autorità hanno concesso la cittadinanza a ‎migliaia di stranieri – quasi tutti arabi e ‎pakistani, tra i quali non pochi mercenari entrati ‎nelle forze di sicurezza – per ‎favorire l’aumento del numero dei sunniti. Decine di ‎oppositori sono in esilio, tra i ‎quali Zeinab al Khawaja, figlia del direttore del centro per i ‎diritti umani del Golfo ‎Abdel Hadi al Khawaja, detenuto da anni. Una donna ci ha raccontato ‎di essere ‎stata torturata. «Hanno usato contro di me torture fisiche e psicologiche, mi ‎hanno ‎umiliata, sbeffeggiata, minacciata di violenza carnale. Mi chiamavano ‘cagna’. Ma ‎agli ‎uomini incarcerati va persino peggio». Un giornalista ci descrive un clima di ‎terrore ‎nell’informazione. «Siamo nel panico, si possono riferire solo le notizie ‎ufficiali, quelle ‎contro l’Iran, di sport e di costume. Tutto il resto è vietato, chi ‎sgarra come minimo perde ‎l’accredito stampa e il posto di lavoro». Dopo i laici il ‎regime ha incarcerato anche i leader ‎religiosi, incluso il leader spirituale degli ‎sciiti, lo sceicco Ali Qassem, arrestato circa due anni ‎fa al termine di un assedio ‎delle forze di sicurezza al suo villaggio, Diraz, costato la vita a ‎cinque giovani ‎manifestanti. «Le elezioni, legislative e municipali, previste il 24 ‎novembre, ‎saranno una farsa – aggiunge il giornalista – solo con candidati in linea con ‎la ‎monarchia». Re Hamad, oltre alla “protezione” dell’Arabia saudita, ha dalla sua ‎parte ‎l’Amministrazione Trump – il Bahrain ospita nella località di Juffair, la V ‎Flotta americana – ‎che garantisce un appoggio pieno alle sue politiche «contro le ‎pericolose ingerenze ‎dell’Iran». E la recente apertura nell’isola di una nuova base ‎britannica fa tacere anche ‎Londra.‎

‎ I centri abitati periferici, quelli sciiti, sembrano città fantasma. Pochi girano in ‎strada, la ‎tensione è palpabile. Sui muri ci sono slogan contro la monarchia e chi li ‎scrive rischia pene ‎severe. In queste aree scoppiano ancora proteste con lanci di ‎sassi contro la polizia. Ma le ‎forze di sicurezza hanno schiantato la resistenza ‎pacifica, aprendo probabilmente la strada ‎ad altre forme di lotta. I giovani ‎bahraniti ormai guardano con crescente scetticismo ‎all’opposizione tradizionale ‎che per anni ha creduto, fallendo, di poter strappare un ‎accordo a un re che non ‎vuole concedere nulla. Nella notte di lunedì scorso, esercito e ‎polizia hanno ‎condotto una maxi operazione – 169 arresti – contro una presunta ‎organizzazione ‎simile al movimento sciita libanese Hezbollah. Si sono vissute ore di panico ‎tra gli ‎oppositori ancora in libertà. In quel clima di tensione e paura la presenza di ‎un ‎giornalista italiano non accreditato ufficialmente ha accresciuto i rischi per le ‎persone ‎che avevano accettato di rispondere alle nostre domande. Per ‎salvaguardarle, su loro ‎richiesta, abbiamo lasciato subito il Bahrain. ‎