A una quarantina di chilometri da Kabul, lungo l’arteria principale che collega la capitale afghana al nord del paese, i viaggiatori non possono non notare, protetta dal filo spinato, sorvegliata dagli «occhi digitali» della sorveglianza panottica e sufficientemente lontana dalla strada, Bagram. Fondata negli anni Cinquanta, riadattata alle necessità delle nuove guerre, è la più grande base militare dell’Afghanistan. Sede di un vasto contingente di soldati internazionali (soprattutto americani), oggi è un hub strategico del conflitto afghano. Non è un caso che l’Accordo di sicurezza bilaterale tra Afghanistan e Stati Uniti preveda che gli americani godano dell’uso esclusivo di Bagram, una volta e se quell’Accordo verrà firmato, dal presidente Karzai o dal successore (che verrà eletto con le presidenziali del 5 aprile). Per qualcuno il suo destino riflette quello dell’intero paese: finire nelle mani dei soldati a stelle e strisce nel caso che l’Accordo venga firmato o tornare finalmente sotto la piena sovranità del governo afghano, nel caso venga respinto.

Quale che ne sia il futuro, il passato recente di Bagram testimonia molti degli avvenimenti più importanti dell’Afghanistan post-talebano. È qui, per esempio, che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è atterrato a sorpresa il 1 maggio 2012, per poi tenere uno «storico» discorso alla nazione americana con cui ha celebrato l’Accordo di partenariato appena firmato con l’omologo Hamid Karzai, un accordo preliminare a quello di cui si discute animatamente ora. Quel giorno, attingendo a piene mani dal serbatoio della retorica americana del nuovo inizio, Obama ha contrapposto la «scura nube della guerra» alla «luce di un nuovo giorno all’orizzonte» che si annuncia «nel buio prima dell’alba». Era il primo anniversario dell’uccisione dello sceicco del terrore, Osama bin Laden, e l’ottavo del discorso con cui il 1 maggio 2003 l’allora presidente George W. Bush dichiarava «missione conclusa» in Iraq dalla portaerei Abraham Lincoln. Oggi la città irachena di Falluja è nelle mani degli epigoni di Bin Laden, l’Afghanistan è ancora sotto la pesante, «scura nube della guerra», mentre l’ottimismo di Obama viene quotidianamente contraddetto dai funzionari del Dipartimento di Stato e perfino dai generali del Pentagono, i quali temono che Karzai possa svincolare l’Afghanistan dall’abbraccio americano e atlantico, rinunciando all’Accordo bilaterale di sicurezza e ricollocando il paese nel suo alveo naturale, l’Asia.

Bagram incarna le contraddizioni afghane, di un paese debole e sfiancato, che rivendica sovranità ma che rimane sotto occupazione e sotto ricatto. E che spesso vede negli stranieri solo degli occupanti, estranei, minacciosi, insensibili. Proprio qui, nel febbraio 2012, alcuni lavoratori afghani hanno trovato le copie del Corano bruciate, innescando una serie di proteste che hanno infiammato il paese per diversi giorni, alimentando l’ostilità verso gli stranieri. E proprio dentro la base di Bagram, nel Parwan Detention Center, la prigione gestita fino al marzo scorso dagli americani, si sono verificati diversi casi di tortura. A certificarlo, le inchieste giornalistiche, i rapporti della Croce Rossa, dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission, della Open Society Foundation, così come il rapporto del dicembre 2011/gennaio 2012 della Commissione indipendente afghana per l’attuazione della costituzione, che ha accusato i funzionari statunitensi di torturare alcuni degli allora 3000 detenuti del carcere.

Sulla pelle dei detenuti della «Guantanamo afghana» si gioca da molto tempo un duro braccio di ferro tra Kabul e Washington. Karzai ha cominciato a rivendicare la «sovranità» sui detenuti di Bagram almeno dalla fine del 2011. Gli Stati Uniti hanno a lungo risposto picche, dicendo di non fidarsi del modo in cui le autorità afghane gestiscono le carceri. Il 9 marzo 2012 è finalmente arrivato l’accordo che prevedeva il passaggio della responsabilità della prigione dagli americani agli afghani entro il 9 settembre 2012. Il passaggio è però avvenuto con molto ritardo e riluttanza. Gli Stati Uniti hanno infatti continuato a mantenere il controllo sui prigionieri, e c’è stato bisogno di un secondo Memorandum di intesa per sancire il definitivo passaggio di consegne, il 25 marzo 2013. In quell’occasione, le due parti hanno convenuto che dall’Afghan National Detention Facility (il nuovo nome della prigione) non sarebbe uscito nessun detenuto considerato pericoloso dagli Stati Uniti. Pochi giorni fa Abdul Shakur Adras, a capo dell’Afghan Review Board che ha il compito di esaminare le pratiche dei detenuti di Bagram, ha annunciato l’imminente rilascio di 88 detenuti, perché «i documenti che abbiamo consultato non forniscono alcuna indicazione della loro colpevolezza». Gli americani pensano il contrario: per loro, quei detenuti sono responsabili dell’uccisione di almeno 35 soldati americani e di 70 afghani, secondo quanto riporta un accurato rapporto dell’Afghanistan Analysts Network di Kabul. A inizio gennaio Obama ha inviato a Kabul i senatori John McCain e Lindsay Graham per convincere Karzai a desistere, e ha intensificato la pressione con minacciose dichiarazioni. In gioco, sostengono a Washington, oltre alla sicurezza dei soldati americani in territorio afghano, c’è il futuro delle relazioni tra Afghanistan e Stati Uniti. Se Karzai non ci ripensa – è il messaggio portato dai senatori americani – si rischia «un danno irrimediabile» nel già difficile rapporto tra i due paesi. Per ora Karzai sembra deciso a far liberare almeno 72 di quegli 88 detenuti (quelli per i quali le prove di colpevolezza non sono convincenti). Il suo portavoce Aimal Faizi ha dichiarato alla Reuters di non poter «consentire che dei cittadini afghani innocenti siano detenuti per mesi e anni senza un processo e per nessuna ragione. Sappiamo che ciò sfortunatamente è avvenuto a Bagram – ha proseguito Faizi – ma è qualcosa di illegale e una violazione della sovranità afghana, non possiamo più permetterlo».

Per gli idealisti, dietro alla polemica sul rilascio dei detenuti di Bagram si nasconderebbe una questione di diritto: a comandare in Afghanistan è il governo Karzai, che nominalmente ha la responsabilità di quei detenuti, o gli americani, che continuano a esercitare la loro sovranità in modo illegittimo? Per i realisti, tutto dipende invece da una questione di forza politica, legata all’uscita di scena di Karzai: Karzai sa che sta per esaurirsi il suo ciclo, che dal prossimo aprile non sarà più presidente, e starebbe cercando di chiudere la partita sia internamente che esternamente. Esternamente, vuol dimostrare agli americani di poter giocare diverse carte – compresa quella di Bagram – nella partita sull’Accordo bilaterale di sicurezza. Internamente, spera di poter usare la carta dei detenuti liberati per ammorbidire i Talebani, convincendoli a riconoscere il suo governo come un legittimo interlocutore per il processo di pace. Un piano rischioso, dagli esiti incerti.