Lo scorso agosto, il giorno prima del via ai Mondiali di atletica a Mosca, Obama si piazzava al centro della scacchiera: «senza gay, la Russia è più debole», aveva ironizzato. Nessuna tolleranza per Paesi che provavano a intimidire o danneggiare omosessuali, lesbiche, transgender. La miccia era accesa già da un po’. Con i precedenti tra Usa e Russia che pesano: le Olimpiadi di Mosca 1980 disertate dagli americani, ricevuta di ritorno sovietica ai Giochi di Los Angeles, quattro anni dopo. Prima di Obama, alcuni atleti si erano espressi contro la legge contraria alla «propaganda omosessuale» voluta a giugno dal Parlamento russo con il benestare di Putin. Anche russi.
Ai Mondiali moscoviti faceva il giro del mondo il bacio sulle labbra con cui Tatiana Firova e Kseniya Ryzhova festeggiavano il successo nella 4×400 metri. La prima sfida plateale a Putin. E pure alla connazionale Irina Isinbayeva, monumento mondiale del salto in lungo, che aveva difeso – per poi smentire – la normativa anti gay. Nel silenzio assoluto dei media russi. Con il bacio sulle labbra, anche tra uomini, che rientra tra le consuetudini nazionali. Come quello alla sovietica scambiato 34 anni fa tra Leonid Breznev, leader del Pcus e il segretario socialista dell’ex Ddr, Erich Honecker. Ma mai era accaduto sul podio di una gara sportiva.
Dopo i Mondiali e il G20 di San Pietroburgo del mancato faccia a faccia tra Putin e Obama, che incontrava le comunità lgtb russe, il campione olimpico statunitense di sci alpino, Bode Miller gettava benzina sul fuoco: «è una vergogna, penso sia assolutamente imbarazzante il fatto che ci sono Paesi e persone intolleranti. Ma non è la prima volta, abbiamo già avuto a che fare con le questioni dei diritti umani». Un messaggio che flirtava con il divieto imposto dalla Carta olimpica di fare dichiarazioni politiche ai Giochi. «Politica e sport si sono intrecciati per secoli – ha aggiunto Miller – fingere che sia diverso non ha senso, né lo avrebbe chiedere che gli atleti si mettano la museruola. Penso che chiedere a un atleta di andare da qualche parte e di gareggiare e poi di essere il rappresentante di una filosofia del tutto diversa dalla propria e di non poter esprimere un’opinione sia piuttosto ipocrita e ingiusto». Una posizione sostenuta dal Comitato olimpico statunitense (in precedenza si era espresso contro la legge quello australiano) che pure smentiva ogni forma di boicottaggio olimpico. E nessuna disdetta al viaggio a Sochi veniva anche dalle istituzioni sportive italiane. Anche se non mancavano posizioni più dure: «Penso che dovremmo prendere a calci il loro sedere, in risposta» commentava il bobbista statunitense Steven Holcomb, oro nel quattro uomini a Vancouver 2010, aggiungendo che il no ai Giochi da parte degli Usa sarebbe servito solo agli interessi della Russia, con più medaglie olimpiche a disposizione.
Tra gli atleti contro la legge anti gay, la statunitense Nick Symmonds che prometteva di dedicare ad amici omosessuali e lesbiche l’eventuale medaglia olimpica, o la saltatrice in alto Emma Green che gareggiava con le unghie dipinte dai colori dell’arcobaleno. Elana Meyers, bronzo nel bob a Vancouver 2010, si preoccupava soprattutto per il potenziale pericolo per gli atleti statunitensi in gara in Russia, sottolineando la necessità di garantire i diritti della comunità lgbt statunitense.
Infine, il britannico Lee Pearson, dieci medaglie d’oro nel dressage alle Paralimpiadi, qualche settimana fa spiegava di volersi recare a Sochi per parlare pubblicamente contro la legge anti omosessuali.