L’inaugurazione della stagione all’Opera di Roma è quasi una prova tangibile del «nuovo corso», salto di qualità e di fantasia, dovuto al pieno esercizio del sovrintendente Carlo Fuortes, che mostra così quanto fossero pretestuose e preconcette le resistenze che si opposero alla sua nomina (comprese quelle sindacali). Il titolo inaugurale, a cinquant’anni dalla sua composizione, è assolutamente nuovo per il pubblico romano, benché il suo autore, Hans Werner Henze, proprio qui avesse eletto il proprio domicilio, e il proprio milieu culturale. The Bassarids (in scena al Costanzi fino a giovedì 10 dicembre) è un’opera nuova e insieme antichissima, per quello che racconta, per il suo linguaggio, per i brividi che ci provoca, di violenta contemporaneità.

La vicenda è quella narrata da Euripide nella sua ultima tragedia, Le Baccanti, e dopo 2500 anni resta intatto l’alone misterioso e misterico che quella storia pervade, assieme alla sacralità, alla violenza e al sangue che letteralmente continuano a sgorgarne. Il libretto, che dalla tragedia euripidea prepararono per Henze W.H. Auden e Chester Kallman, approfondisce (fino a renderli dilanianti) i toni del conflitto tra l’ordine statuale rappresentato dal re Penteo e dalla sua ragion di stato, e l’abbandono incontrollato ai sensi e agli istinti (che prendono corpo nelle danze sfrenate senza più obbedienza ad alcuna regola di convivenza) fomentato dalla divinità di Dioniso, dio dell’ebbrezza ma soprattutto assetato di vendetta per la morte sacrificale della propria madre, sorella semidivina della madre di Penteo, Agave.

The Bassarids_Veronica Simeoni(Agave),fra le mani la testa del figlio(Pentheus)®Yasuko Kageyama-Opera Roma2015-16_1733

Quel dissidio parentale e mitologico diviene uno scontro all’ultimo sangue tra ragione e fede, tra governo e anarchia dei comportamenti, tra convivenza e conflitto della tormentosa e tormentata città di Tebe, cornice privilegiata di ogni «nefandezza» e di ogni conflitto religioso, dinastico, parentale, libertario e fratricida. E la rocca di Cadmo che la sovrasta è la scena criminis culminante dell’intera mitologia greca. Proprio nel contesto di queste Bassarids, come in Euripide, Agave ebbra e posseduta dalla divinità non riconosce tra le fronde del bosco agitate dalle danze il figlio Penteo, lo scambia anzi per un leone, lo uccide, lo sbrana e ne esibisce la testa su un palo come trofeo.

È un orrore, che non è neppure l’elemento più irrappresentabile di una tragedia fosca e smisurata, dove entrambe le parti contendenti hanno un fondo di ragione, ma che subito soggiace (se non cade nel ridicolo) al paragone con la fondatezza dell’altro. Senza cadere in facili attualizzazioni, è intuitivo per chiunque come uno scontro del genere risuoni oggi negli echi di guerra sanguinaria nelle nostre città. E l’antica Tebe è così spettro perfino delle nostre moderne, civili e tecnologiche metropoli. A quella Tebe per altro torna ancora volta (come fosse un interiore karma o personale santuario) Mario Martone cui è stata affidata la messa in scena della bella e ricca partitura di Henze. La città e i suoi tragici nodi costituiscono infatti la quasi totalità degli incontri numerosi del regista con testi classici: Edipo, Antigone, Creonte, Eteocle e Polinice sono figure in grande familiarità col suo teatro. E anche qui campeggiano le sette fatali porte della città.

Ma per arrivare a questo punto originario di tutti quei suoi racconti tebani, Martone ha chiesto stavolta allo scenografo Sergio Tramonti un luogo davvero «originario»: una sorta di grande cratere, inclinato in avanti dove le menadi vivono il loro disordine collettivo, e si focalizzano i momenti decisivi della tragedia. Un buco nero, che si fa anche letteralmente specchio delle ragioni che si combattono in primo piano, e via via dell’orchestra e anche di qualche fila della platea. Una tragedia collettiva quindi, che in quel crogiuolo si focalizza e gira a spirale avvitandosi senza fine. Una immagine non scontata, che sorpassa la irrapresentabilità delle Baccanti, i cui movimenti, non a caso, la coreografa Raffaella Giordano contiene in una misura significativa ma mai «estrema» o sguaiata. Tutto si compie a vista, nulla è celato, tutto può essere interiorizzato dallo spettatore. I momenti più duri e quelli più dolorosi, seguendo solo il movimento della musica di Henze, che cambia ritmo e tono a seconda dei momenti e delle situazioni, ma in una costante e mirabile capacità di farsi ascoltare in profondità.

The Bassaids_Ladislav Elgr(Dionysus)®Yasuko Kageyama-Opera Roma 2015-16_1102

La direzione di Stefan Soltesz asseconda con grazia consapevole il racconto musicale di Henze, e l’interpretazione dei cantanti, capaci di attirare dalla parte del proprio personaggio il pubblico. Se l’Agave di Veronica Simeoni seduce e commuove, Russell Braun lo fa quasi schierare dalla parte di Penteo rispetto al Dioniso di Ladislav Elgr. Ma è l’insieme a conquistare: un insieme di pensiero e di tentazioni che ci avvicinano pericolosamente a quella grotta di stile pompeiano dove tutto iniziò, e a cui oggi sembriamo tornare, storditi e confusi più di quelle antiche Baccanti.