Il dialogo fra diverse culture, un’urgenza che negli ultimi decenni si è fatta pressante fra paura e opportunità di arricchimento, si dibatte solitamente fra due fronti. Il primo è quello di chi sostiene un azzeramento degli elementi particolari, dei simboli religiosi, di tutto ciò che può trasformarsi in occasione di conflitto, in nome di un universalismo più ateo che laico. La seconda voce è quella di chi suggerisce di temperare, nel fuoco della democrazia, le asperità, le differenze prima che diventino divergenze, con il desiderio di permettere un incontro e un dialogo aperto.

RARAMENTE viene considerato un terzo versante: non tanto la necessità di pacificare la società, non tanto il dubbio se le particolarità culturali debbano essere rappresentate e quale spazio concedere loro, bensì l’urgenza di garantire agli appartenenti di una data cultura la possibilità di emanciparsi da essa, dalle sue ritualità, dalle sue categorie di giudizio. Si tratta di un aspetto che non considera la cultura come una bolla unica e compatta, ma gli individui che vi nascono dentro, che vivono una vita concretamente collocata sempre a contatto con le differenze individuali e culturali, che possono volersi liberare delle radici che li piantano a terra e orientare i propri rami verso dove vedono la luce più promettente.
Il romanzo Baba, di Mohamed Maalel (Accento edizioni, pp. 320, euro 16), racchiude la complessità di simili questioni, osservate nel racconto di una vita intera. Una vita che si svolge fra le mille contraddizioni tipiche della seconda generazione di una famiglia migrante. O, meglio, all’ombra della cultura di un padre tunisino, musulmano, sposato con una donna italiana. Tutto è complicato: la lingua è incerta e doppia, perfino il nome arabo in Italia viene storpiato, a far svaporare quasi la stessa identità personale. Il padre impone la propria cultura, i precetti religiosi, le ritualità, con una violenza che sfiora la crudeltà, e cagiona danni fisici talvolta irreparabili nel figlio, e danni emotivi difficili da rimarginare, come l’inesorabile perdita dell’infanzia.

ALLA VIOLENZA si alternano slanci d’amore inattesi e contraddittori. Ma l’amore paterno è altra cosa: è un gesto che libera il figlio e lo consegna a una vita autonoma e realizzata. E se in tenera età Mohamed si abbandona a piccole innocenti trasgressioni alla cultura paterna, da adulto egli imbastirà con le proprie radici un dialogo maturo e critico, sebbene al padre non confesserà mai la sofferenza che gli ha cagionato.