«I conflitti del nostro tempo possono essere interpretati come uno scontro tra diverse idee di libertà». La pandemia ci ha offerto l’opportunità di riscoprire la radice sociale della nostra libertà individuale. Questa chance non è stata finora raccolta. Ma la democrazia è un «processo di apprendimento collettivo senza fine», che viene messo in moto, ogni volta di nuovo, dai conflitti per il riconoscimento.

Axel Honneth è ospite del Festival di filosofia di Modena e terrà una lezione magistrale sul tema che sta al centro delle sue ultime pubblicazioni: la libertà sociale. Capofila della terza generazione della Scuola di Francoforte, è autore di monografie che hanno segnato il dibattito filosofico contemporaneo. Un filo rosso attraversa il suo pensiero: l’idea che il progresso sociale si alimenta di conflitti che nascono come lotte per il riconoscimento sociale. Con Hegel e contro Hegel, egli afferma però che questi conflitti non hanno mai fine. La loro posta in gioco è apprendere a praticare significati sempre più profondi e relazionali della nostra libertà.

Prof. Honneth, nei suoi testi più recenti, Lei ha tentato di riformulare la concezione di Hegel secondo la quale l’idea di libertà, intesa come autonomia dell’individuo, costituisce il valore supremo della modernità. Un valore a cui tutti gli altri sarebbero subordinati. Come giustifica questa tesi?

Non mi sembra difficile giustificare questa tesi. Ogni volta che ci domandiamo come deve essere costituto il nostro ordinamento sociale e ci richiamiamo per questo a determinati valori – per esempio quelli di sicurezza, di vita buona o di armonia sociale – giustifichiamo questi ultimi, a loro volta, tramite il ricorso al valore dell’autonomia individuale. Se ci battiamo per esempio per la sicurezza quale valore supremo, lo facciamo perché solo un ordine sociale sicuro, tutelato da attacchi esterni e da minacce interne, può garantire a ciascun membro della società di poter godere della sua libertà individuale. A me sembra sia così anche per tutti gli altri valori. Poniamo in relazione la loro validità ultima con il valore che essi possiedono in quanto strumenti o contributi per garantire la nostra autonomia individuale. Penso che su questo punto io concordi non solo con Hegel ma anche con John Rawls: nelle società moderne la libertà di ciascun uomo e di ciascuna donna, di ogni singolo individuo, rappresenta il valore più alto, quello attorno al quale ruotano tutti gli altri, che spesso sono naturalmente molto significativi. Detto diversamente: non capiremmo in alcun modo la rilevanza etica di questi altri valori se non potessimo comprendere quale è il loro significato per la libertà individuale.

Eppure il concetto di libertà può signicare cose diverse. A dominare il nostro tempo sembra una concezione individualistica e negativa di libertà. Ad essa lei contrappone non solo la libertà positiva, ma anche un concetto di libertà sociale. Può spiegare il senso di queste differenze?

Detto in breve, si può dire che nella storia spirituale europea siano state tradizionalmente differenziate due concezioni di libertà individuale – questo già con Kant e poi con Isaiah Berlin. La libertà negativa prevede che il singolo, nel perseguire i propri propositi di volta in volta privati, non incontri altri ostacoli che non siano quelli che discendono dall’ordinamento giuridico generale; con libertà positiva si intende, di contro, che i singoli si lasciano guidare, nei loro propositi e nelle loro azioni, da valori più elevati rispetto alle loro tendenze private e ai loro impulsi. Questa dicotomia non mi sembra tuttavia esaustiva. Essa oscura il fatto che si dà anche il caso significativo in cui io posso realizzare i miei propositi – più elevati o più bassi – solo se un’altra persona ha propositi complementari – per parafrasare una canzone, nel bacio o nell’amore! Qui la libertà di una persona è intrecciata allo stesso tempo con la libertà dell’altra persona: nessuna delle due può realizzare i suoi propositi senza l’altra.

Denomino questa forma più esigente di libertà «sociale» – e penso che sia questa la libertà che Hegel e Marx avevano in mente quando utilizzavano enfaticamente questo concetto. Sono convinto inoltre che la forma peculiare della libertà democratica possa essere compresa solo con l’ausilio di questo concetto, quindi solo se si chiarisce l’intreccio intersoggettivo delle nostre libertà individuali.

Molti dei conflitti politici del nostro tempo sembrano potersi leggere anche come uno scontro tra queste diverse grammatiche della libertà. Lo vediamo anche oggi nella crisi pandemica. Questa crisi può essere secondo Lei un’occasione per riscoprire un’idea diversa di libertà?

All’inizio della crisi ero effettivamente convinto che la pandemia avrebbe potuto impartire a noi tutti questa lezione: quella di orientarsi d’ora in avanti, in modo sempre più forte, verso una concezione sociale o comunicativa della nostra libertà individuale. Nel frattempo, tuttavia, ho dovuto ammettere che questo iniziale ottimismo sia fallito. Purtroppo, dalla crisi del Coronavirus non sono state tratte le conseguenze che vi erano suggerite, ossia riflettere su quanto fortemente il nostro personale benessere e la nostra libertà individuale siano dipendenti dalla cooperazione attiva di tutti i membri della società. Negli Stati Uniti, ma anche in Germania e in Italia, la maggioranza della popolazione continua ad essere convinta del fatto che il vaccino sia qualcosa che riguarda la protezione individuale – puramente privata – dal contagio del virus, mentre solo una minoranza ritiene che il vaccino serva in primo luogo al bene comune, nella misura in cui ci decidiamo insieme ad impegnarci in un servizio di aiuto reciproco.

Ed effettivamente nella contrapposizione sociale tra una libertà puramente negativa e privatistica, da una parte, e una libertà sociale, dall’altra, si rispecchiano confitti tra visioni del mondo ancora più profondi. Chi difende la prima concezione della libertà e la ritiene giusta considererà anche il capitalismo nella sua forma attuale, neoliberale, pienamente legittimo, perché esso serve il puro interesse personale di chi ha successo economico. Chi di contro è a favore di una concezione sociale della libertà riterrà anche che sia assolutamente necessaria una incorporazione sociale del mercato capitalistico, perché solo così la libertà di uno è condizione della libertà dell’altro.

A partire dal tema della libertà sociale Lei tenta di ripensare anche l’idea di democrazia. Si riallaccia alla grande lezione del filosofo americano John Dewey, per il quale maggiori sono i livelli di interazione sociale maggiore è il livello di intelligenza sociale a disposizione di una comunità per risolvere i suoi problemi. Possiamo dire che, nel quadro di questa concezione, la democrazia si mette in movimento ogni volta che gruppi sociali si sollevano contro la loro esclusione dall’interazione generale?

Sì, sono pienamente d’accordo. La lotta per il riconoscimento, per servirmi della mia terminologia – che in ogni caso non era estranea nemmeno a Dewey – è l’elemento indissolubile di qualsiasi democrazia vitale. Sarebbe persino appropriato affermare che l’aperto conflitto sociale e il temporaneo accordo tra cittadine e cittadini siano i due lati di ogni processo democratico. La prima fase di questo interminabile processo consiste nella ribellione di gruppi sociali contro circostanze e condizioni che, dal loro punto di vista, formano degli ostacoli all’esercizio dei loro diritti democratici. Simili barriere percepite possono avere le cause più disparate: possono essere ricondotte ai sentimenti di umiliazione di sé che degradano la propria identità sociale e con questo impediscono una paritaria partecipazione ai confronti politici, o alle forme di organizzazione del lavoro che a causa di carichi gravosi e di forme di autoritarismo strutturale rendono impossibile un’attiva partecipazione alle discussioni politiche, o anche alla semplice privazione statale dei diritti politici. Si può con ragione affermare per altro che non possiamo mai essere sicuri che future esperienze non riveleranno ulteriori forme di discriminazione, ancora del tutto sconosciute.

Per questo il loro elenco è in linea di principio aperto e interminabile.
La fase successiva in questo processo democratico è costituita idealmente dalla comprensione da parte della maggioranza sociale che le discriminazioni lamentate dai gruppi svantaggiati ci sono effettivamente, cosicché devono essere prese misure per eliminarle – questo momento rappresenta la fase dell’unità politica, che in ogni caso non può mai durare a lungo, perché presto i gruppi sociali troveranno nuovamente altri motivi per sentirsi svantaggiati riguardo alle loro chance di codeterminazione democratica. In questo senso il circolo del processo democratico non si chiude mai: rappresenta un processo di apprendimento aperto verso il futuro, infinito.

A partire dal nesso tra libertà sociale e democrazia lei ha avviato recentemente anche una riflessione sul tema del lavoro. Può spiegare questo punto?

Sono profondamente convinto che la teoria democratica contemporanea sia caratterizzata da una marcata tendenza a dimenticare che le chance di partecipazione democratica siano dipendenti da rapporti di lavoro giusti, ben strutturati e soddisfacenti. Questa dipendenza comincia con il fattore-tempo: solo chi dispone di tempo sufficiente, al di là della propria occupazione economica, per riflettere in generale sulle sfide politiche del proprio tempo, possiede un’opportunità realistica di partecipare al discorso democratico. C’è poi il fattore psicologico: a causa delle sue eclatanti gerarchie e delle sue forme di dipendenza, l’odierno mondo del lavoro non lascia agli occupati alcuna opportunità di fare esperienze nelle quali la loro voce conti qualcosa, sia efficace, produca effetti. Per questo, una volta entrati nei contesti di discussione politica manca loro qualsiasi senso della rilevanza delle proprie convinzioni.

Chi nel proprio posto di lavoro sperimenta, in modo permanente, che la sua parola non conta nulla, come potrebbe poi, nel contesto della coesistenza democratica, sviluppare improvvisamente la sensazione che la sua opinione o le sue convinzioni abbiano un qualche significato di rilievo per la sfera pubblica? In terzo luogo c’è il fattore sociale: molti occupati nel nostro odierno mondo del lavoro non godono né del meritato riconoscimento economico né del necessario riconoscimento simbolico – pensiamo solo alle professioni che hanno, come si dice, una «rilevanza per il sistema», come quelle degli addetti all’assistenza di anziani e malati, degli occupati nei servizi di trasporto, di chi lavora nelle attività educative. All’inizio della pandemia queste professioni sono state sostenute con molti applausi. E tuttavia continuano ad essere retribuite in modo miserabile, sono organizzate male, il loro ruolo non viene in alcun modo percepito e rimangono confinate nell’ombra dell’attenzione pubblica.

Chi però riceve così poco riconoscimento pubblico per la sua attività lavorativa non avrà il senso di autostima necessario per poter partecipare al discorso democratico senza ansia e senza vergogna. Potrei continuare in questo modo enumerando ulteriori elementi dell’organizzazione del lavoro sociale che hanno un influsso diretto sulle opportunità di partecipazione alla formazione della volontà politica. Ma il punto sul quale voglio battere dovrebbe essere a questo punto chiaro: tanto più bassa è la posizione che si occupa nella divisione sociale del lavoro, tanto peggiore è la propria retribuzione, tanto più estenuante, disintegrante, solitaria la propria occupazione, quanto inferiori saranno le chance di far valere in modo paritario le proprie convinzioni nel processo del discorso democratico.

Recentemente ha dedicato un libro all’idea di socialismo. È una parola, questa, che contro ogni previsione storica, è tornata in auge negli ultimi anni negli Stati Uniti. Lei vive tra Francoforte e New York, come vede questa rinascita?

Negli Stati Uniti viene percepito come socialista già un moderato programma socialdemocratico come quello proposto da Bernie Sanders, che io ammiro moltissimo. In Europa naturalmente le cose sono molto diverse. Qui quando si parla di «socialismo» si ha tuttora in mente la venerabile tradizione del movimento operaio in lotta del primo terzo del XX secolo. Io sono convinto che un socialismo rivisto, adeguato ai nostri tempi, debba essere ancora formulato. Nel mio breve libro sull’idea di socialismo ho voluto stabilirne i primi presupposti, in quanto ho consigliato di congedarsi dalla vecchia teoria deterministica della storia, e di virare in modo deciso verso un orientamento denominabile come sperimentalismo. John Dewey per primo lo ha tratteggiato, nel momento in cui si è espresso a favore di un’attitudine alla ricerca esplorativa, aperta e libera da pregiudizi, delle vie che possano condurre alla socializzazione dell’economia.

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(la versione breve di questa intervista è stata pubblicata all’interno delle pagine culturali nella edizione del manifesto di oggi in edicola, ndr.)