Quando Voltaire, ormai molto anziano, incontrò il giovanissimo William Beckford: «Je dois tout à votre oncle, le conte Antoine Hamilton», sembra gli abbia confessato: «Devo tutto a vostro zio». E lo stesso Beckford, qualche anno più tardi, nella foga della composizione di Vathek, avvertendone la genuina felicità oltre l’inferno descritto: «Credo che il conte Hamilton mi sorriderà quando ci presenteranno in paradiso». Beckford – la lettera (25 aprile 1782) è all’orientalista Samuel Henley – si riferiva, senza dubbio, alle novelle arabeggianti Le Bélier o Les Quatres facardins, imitazioni parodiche dei racconti delle Mille e una notte che, nella traduzione di Antoine Galland, furoreggiavano in tutt’Europa fin da inizio Settecento. Mentre Voltaire, seppur non insensibile ai fascini d’Oriente (Zadig, La Princesse de Babylone), e alla fragile eleganza dei versi occasionali di Hamilton, aveva piuttosto in mente la sua opera già allora più nota, Le memorie del conte di Gramont (ora a cura di Fausta Garavini, La Tartaruga, pp. 314, euro 19,00) – uno dei tre libri che, secondo una famosa osservazione di Madame de Staël, meglio compendierebbero l’esprit français (gli altri due: le Lettere di Madame de Sévigné e le Favole di La Fontaine).
Che a scrivere,«di tutti i libri, il più squisitamente francese, nello spirito come nei modi» (così il grande storico vittoriano T.B. Macaulay) sia stato un autore d’oltremanica – di padre scozzese e madre irlandese, a esser precisi – non stupirà più di tanto. Fra Sei e Settecento l’Europa parlava francese (come recita il titolo di un saggio di Marc Fumaroli). E molti nobili inglesi – quelli che, fedeli alla Corona, nel 1650, all’avvento di Cromwell, dovettero espatriare – avevano tutte le ragioni anche di pensare e scrivere, e insomma quasi di sentirsi francesi. Lo stesso Anthony Hamilton (1645?-1720) crebbe, con la famiglia, nei pressi di Caen, fino alla restaurazione di Carlo II nel 1660; e tornò spesso in Francia, anche al servizio di Luigi XIV, nei decenni successivi: per ritrasferirvisi definitivamente nell’88, seguendo la corte giacobita nel suo esilio d’operetta a Saint-Germain-en-Laye. È lì che, ormai quasi sessantenne, Hamilton comincia a scrivere per ammazzare la noia: poesie e racconti fantastici e, presumibilmente nel 1703-’04, le ‘memorie’ dell’adorato cognato, il disinvolto, fascinoso e non di rado irritante Philibert de Gramont (1621-1707). Senza alcuna intenzione di veder pubblicate le proprie pagine, che circolano manoscritte per il diletto e la divertita malizia d’una ristretta cerchia di nobildonne e cortigiani intelligentemente sfaccendati: finché nel ’13 – l’anno in cui Pope si congratulava con Hamilton d’una traduzione, anch’essa inedita, dell’Essay on Criticism – un manoscritto (e non dei più corretti) delle Memorie di Gramont approda chissà come sul tavolo d’uno stampatore olandese. Da allora le edizioni, in Francia e in Inghilterra, per tutto il Sette e l’Ottocento non si contano.

Le apparizioni di Mazzarino
Quanto a baldanza narrativa e suggestività storica, i primi cinque capitoli – le avventure al tavolo da gioco, galanti e militari di Gramont dal 1643 al ’62, cioè prima che Hamilton lo conoscesse – sono probabilmente i più felici. Vuoi perché all’assedio della cittadina di Trino (1643) come a quello, che sùbito segue, delle compiacenti dame di Torino, il cavaliere è accompagnato dall’ineffabile Matta: il quale – a differenza dell’amico – proprio non si raccapezza nelle finezze del cicisbeismo («“Che razza di cerimoniale! Ma come, in questo paese non si può vedere la moglie se non si è innamorati del marito?”»), quindi finisce per sorbirsi per davvero la soporifera compagnia del signor di Sénantes, «esperto di genealogia come tutti gli sciocchi che hanno memoria», mentre Gramont si gode tutta la notte le grazie della «tenera» signora. Vuoi perché nella scena dell’abbraccio fra il nostro cavaliere, fedele al suo re dopo qualche simpatia frondista, e il Gran Condé, ora a capo dell’esercito imperiale, alla vigilia della battaglia di Arras (1654); e nelle brevi apparizioni del cardinal Mazzarino, avido e ambiguo, se pur «il meno vendicativo di tutti i ministri», al cui cospetto solo Gramont osa «conservare una specie di libertà» – le Memorie sembrano adombrare, con una punta di nostalgia, quel romanzo meno ribaldo, forse non così ‘spiritoso’ ma più nobile e autenticamente libero, di cui un cavaliere di Gramont sarebbe potuto esser l’eroe in un tempo di più antica lealtà feudale.
Col passaggio in Inghilterra, dove il Nostro approda nel ’62 – allontanato dalla corte di Francia dopo aver ‘importunato’ una damigella in lizza per le attenzioni del sovrano –, le Memorie (ora anche di Hamilton, non del solo Gramont) da racconto si dispiegano in ‘galleria di ritratti’, quindi in un vivacissimo tableau vivant, «il quadro più raffinato e variopinto della corte inglese nei giorni in cui la corte inglese era al colmo della sua gaiezza» (ancora Macaulay). Uno stuolo di ninfette, ansiose di avanzamento sociale, sfarfallano, mostrano il seno e le gambe (e, quando cadono da cavallo, anche molto di più…), contendendosi i generosi favori del simpatico Carlo II e di suo fratello, il duca di York. Sterile e affatto priva di attrattive muliebri, Caterina di Braganza, la regina consorte, neanche prova ad arginare l’attacco di tante belle. Ma ne regola con una certa sapienza il forsennato carosello. E dimostra una grande forza, non solo d’animo, quando, ammalatasi gravemente, rassicura Carlo – affranto al suo capezzale, come da copione – di starsene andando triste sì «di non aver meritato il suo amore», però con «la consolazione, morendo, di lasciare il posto a qualche sposa che ne fosse più degna», ovvero più avvenente: «A queste parole gli cosparse le mani di alcune lacrime che il re credette le ultime. Vi aggiunse le sue e, senza immaginare che lei lo prendesse in parola, la scongiurò di vivere per amor suo. La regina non gli aveva mai disobbedito e, per quanto le emozioni improvvise siano pericolose quando si è fra la morte e la vita, questo trasporto di gioia che doveva esserle fatale la salvò, e la straordinaria commozione del re fece un effetto di cui non tutti ringraziarono il cielo».

Arbitro di nonchalance
Con il suo «fondo inesauribile di buonumore e di vivacità» – ma anche grazie ai buoni consigli di Saint-Évremond (1613-1703), l’amico filosofo riparato in Inghilterra qualche anno prima per dissapori con Mazzarino – il cavaliere s’ambienta subito magnificamente nella nuova corte. Arbitro di nonchalance, la battuta sempre pronta, Gramont gioca, amoreggia e, coccolato un po’ da tutti («dovunque cercava e portava allegria»), si guarda bene dal primeggiare. Si muove, però, agile nei retroscena e, più di una volta, è lui all’origine di quel che avviene in primo piano. Come quando commissiona in Francia e dona a Carlo «il calesse più elegante e magnifico che si fosse mai visto». Prima, come giusto, vi sono scarrozzate la regina e la duchessa di York. Ma poi, a quale delle favorite sarebbe toccato di farsi vedere su tanta meraviglia, il primo giorno di bel tempo in Hyde Park? A Barbara di Castlemaine, che il suo re ormai lo conosceva bene, o alla più giovane Francis Steward, che conservava ancora il suo mistero? «La Castlemaine era incinta e minacciava di partorire in anticipo se la sua rivale aveva la precedenza. Madamigella Steward protestò che non la si metterebbe mai grado di partorire se non la si preferiva. Questa minaccia la vinse sull’altra e i furori della Castlemaine furono tali che rischiò di mantenere la parola; e si ritiene che questo trionfo costò un po’ d’innocenza alla sua rivale».
«Non ho mai incontrato una donna che non detestasse le Memorie del conte di Gramont», scrisse Lord Byron, non unico nel suo tempo a conoscere il romanzo di Hamilton quasi a memoria: «Le donne odiano tutto quello che strappa i lustrini al Sentimento – e hanno ragione – o le priverebbe delle loro armi» (lettera a John Murray, 12 ottobre 1820). Può darsi sia vero; o lo sia stato, in epoca romantica (Byron, che di quell’epoca fu uno degli artefici, si sentiva piuttosto uomo del Settecento). Comunque, se Madame du Deffand accettò che Horace Walpole le dedicasse la sua famosa edizione del de Gramont (1772), ma non volle che il suo nome vi apparisse, non fu certo per non sentirsi disarmata. E forse non sarà un caso che, nel Novecento, i libri più belli su vita e opere di Hamilton e sulla figura storica del cavaliere di Gramont si debbano, rispettivamente, alla penne femminili di Ruth Clark (1921) e Claire-Éliane Engel (1963). Mentre a Fausta Garavini dobbiamo l’unico studio sistematico dei cinque manoscritti superstiti (purtroppo nessuno autografo), che permette a questa nuova traduzione italiana d’esser condotta su un testo originale tuttora ‘inedito’, più corretto di quelli mai pubblicati in Francia. Al formidabile lavoro filologico della Garavini restano infatti debitori sia René Étiemble (nell’edizione «Pléiade», rivista e corretta, dei Romanciers du XVIIIe siècle, 1988) sia Michel Delon: il quale, nello stabilire un nuovo testo per il recentissimo Folio Gallimard (2019), accoglie quasi tutti i suggerimenti della grande studiosa italiana, senza preoccuparsi troppo – a quanto pare – di verificarli a sua volta sulle vecchie carte.
Ma qui il discorso si farebbe troppo tecnico (quei capitoli, annunciati fra le righe, in cui Gramont avrebbe ‘brillato’ alla corte francese, prima e dopo l’esilio in Inghilterra, sono mai stati scritti? e se sì, chi li avrà distrutti?) ed è tempo di portarlo a conclusione. Magari osservando come Fausta Garavini, tornando ora, in veste di traduttrice – e, insomma, di vera scrittrice – a un suo lavoro ‘scientifico’ di gioventù, abbia compiuto qualcosa di non tanto diverso da quello che fece lo stesso Hamilton quando ascoltava i racconti dello sfrontato cognato, e ne trascriveva arguzie e eroicomiche gesta, incrociando le memorie d’uomo fatto di lui alle proprie di ragazzo: da qui la freschezza della pagina tradotta, e la grazia quasi negligente della breve prefazione, che tanto rispettano – e rispecchiano – l’impertinente ‘leggerezza’ di questo piccolo classico. (Chapeau, infine, a chi ha scelto l’immagine di copertina: ‘Luigi XIV e la sua corte a Versailles’, da Les beaux épisodes de l’histoire de France (1922), uno dei primi libri illustrati da Marcel Jeanjean, sorprendente e più azzeccata – mi sembra – del bellissimo ma troppo prevedibile Watteau in copertina all’edizione Folio).