Alita: Battle Angel è un progetto a cui James Cameron lavorava già più dieci anni fa, prima dell’uscita di Avatar, e prima che il successo straordinario del suo viaggio a Pandora lo risucchiasse in un labirinto di sequel, spin-off multi mediatici, detour di sperimentazione tecnologica, escursioni nelle profondità del mare e in quelle dell’Amazzonia, da cui non è ancora uscito e da cui forse, almeno in un’accezione tradizionale di cinema, non tornerà più. In questo senso, l’adattamento della serie manga di Yukito Kishiro (pubblicata per la prima volta nel 1990), prodotto da Cameron che è anche co-sceneggiatore insieme a Laeta Kalogridis, uscito in sala la settimana scorsa, si presenta come un film «vecchio», inesorabilmente superato, nel trattamento esistenziale della figura del cyborg, nell’aspetto della sua protagonista, Alita (l’attrice Rosa Salazar riletta in motion capture e con occhi enormi, come una bambina dipinta da Margaret Keane), nella love story saccarinosa e anche nei set, che ricordano un bazar della sci-fi, da Blade Runner, a Atto di forza a Robocop a Elysium.

SUPERATO però l’effetto naftalina, e lo sconcerto di trovarsi di fronte a un Cameron retro, invece che d’avanguardia, questa collaborazione tra il regista di Titanic e Robert Rodriguez è un film curioso, suo malgrado affascinante, che ti porta dentro allo schermo non tanto attraverso il plot o l’originalità dei personaggi, ma nella coerenza del mondo in cui si affaccia, per alcune sequenze d’azione bellissime (specie in 3D), e per la scommessa intrinseca all’idea di combinare tra di loro due sensibilità così diverse – quella sentimentale, lineare e grandiosa di Cameron, e quella fredda, cattiva, pulp, intrisa di serie B del texano di Sin City, El Mariachi, Machete e Spy Kids, qui forte di un budget (170 milioni di dollari) che i suoi film precedenti non hanno mai sfiorato.

Iron City, 2563. Un po’ il dottor Frankenstein un po’ Geppetto, Christoph Walz è Dyson Ido, il chirurgo cibernetico che, girovagando a caccia di «pezzi» in una megadiscarica, trova Alita – o meglio la sua testa, collegata alla spina dorsale e a un cuore praticamente indistruttibile, anche metaforicamente parlando (tocco molto Cameron).

IDO RICOSTRUISCE il resto della ragazza usando un corpo metallico che aveva ideato per sua figlia. Ma ben presto è evidente che, per sopravvivere nella giungla di Iron City (piena di mercenari, cacciatori di taglie, serial killer e ladri) la dolce Alita – che ha un senso della giustizia inscalfibile e nel cervello la memoria di un’antica tecnica di combattimento praticata 300 anni prima su un altro pianeta – ha bisogno del suo corpo originale – che recupera sott’acqua, ed è molto più sexy di quello regalatole da Ido. È anche un’arma di potere senza pari sulla terra e che lei usa al meglio (se non dal punto di vista drammatico) per «giocare» a Motorball, la versione terzo millennio e ancora più feroce di Rollerball. È in quell’arena che l’eroina, Rodriguez e il film danno il meglio di sé.