Alla frequente domanda «Perché ci è voluto così tanto a finire questo secondo Avatar?», che arriva in sala quasi quattordici anni dopo quello originale, James Cameron risponde ogni tanto di essersi preso un lungo periodo di vacanza per esplorare la fosse delle Marianne, a bordo di un sottomarino di sua creazione. Se ci fossero mai stati dubbi che l’acqua è l’elemento naturale del regista di Piranha 2, The Abyss e Titanic, l’onda turchina, piena di creature fantastiche che dallo schermo travolge la sala risucchiandola in un’apnea di tre ore e più in Avatar: la via dell’acqua li metterà a tacere una volta per tutte. Perché il cinema profondamente fisico, materico di Cameron, così abile a evocare il potere distruttivo di muscoli iperpalestrati, armi da fuoco over size, cyborg assassini e conflagrazioni tra superfici metalliche trova nuove, sublimi libertà -visive, poetiche e politiche- negli oceani di Pandora. Con un magnifico lavoro sul digitale, instancabile nella cura del dettagli, delle texture, delle espressioni del volti, lavorando con amore sul 3D (un medium «finito» dal punto di vista commerciale, dopo la piccola resurrezione, qualche anno fa; ma solo perché nessuno, in realtà, ci investe come lui) Cameron azzera la differenza tra gli elementi – l’aria, l’acqua, l’universo verdeggiante della foresta, la temperatura della luce, ma anche tra la ripresa dal vero e l’animazione – tra i corpi degli attori e la loro rielaborazione in CGI- in un unicum magico, affettivamente credibile.

LA TENSIONE tra la plasticità, il «peso» del reale – gravità e gravitas- e lo slancio verso l’immaginazione totale, il gioco, una delle contraddizioni più emozionanti del suo cinema. Il film inizia con un idillio famigliare -l’ex militare/invasore Jake Sully (Sam Worthington), nella sua nuova incarnazione Na’vi, e l’amata guerriera Nytiri (Zoe Saldana), vivono felici e contenti con i loro cinque figli – due dei quali adottati: Spider, un bambino bianco (di cui poi scopriremo le origini), e la Na’vi quattordicenne Kiri (Sigourney Weaver), forse concepita non si sa bene come dalla dottoressa Grace Augustine (Weaver nel primo film). Da sempre Cameron adora gli ibridi, gli outcast. È un altro dei suoi modi di sfidare le leggi.

AI MARGINI del loro mondo incantato, una base militare (presieduta da Edie Falco) continua a perseguire il programma Avatar cha ha identificato Pandora come la nuova destinazione degli umani dato che la Terra non ha più risorse. A darle man forte, con l’obbiettivo di eliminare Jake, leader carismatico della Resistenza, arriva un plotone di avatar in cui è stata inserita una memoria umana comandato dalla versione Na’vi del defunto colonnello Quaritch (Stephen Lang). Abbigliati in camouflage e scarponi militari, le camicie da cui esplodono i bicipiti come in una caricatura delle forze speciali, addobbati di armi da fuoco, i nuovi arrivati hanno di Na’vi solo il colore delle pelle, l’altezza e la forza sovrumana. Il resto (dentro, quindi l’anima) è inequivocabilmente parte del brutto e del bruto che, a bordo di macchinari bruti e brutti anche loro, oltre che carichi di esplosivi, minaccia Pandora.

Temendo di portare alla distruzione totale della loro tribù, Jake, Nytiri e i bambini abbandonano la foresta, si addentrano nel cuore di Pandora a cercano asilo presso la popolazione dei Metkayina, abitanti delle isole. Avatar: la via dell’acqua approfondisce ancora di più l’analogia tra gli abitanti di Pandora e i nativi d’America – nel film c’è anche un tocco di western con uno assalto al treno all’inizio. Il nuovo mondo acquatico -la pelle è più turchese, i volti più scolpiti, al collo decorazioni di corallo – dà a Cameron mano libera di spalancare davanti ai nostri occhi un nuovo universo fantastico. Tutto legato alla vita nell’acqua.
A condurci alla sua esplorazione e ad apprezzare i suoi valori, non sono gli adulti ma i loro figli -il passaggio generazionale strategicamente necessario anche a sostenere i sequel multipli in arrivo.

SEMPRE nelle interviste rilasciate per l’uscita del film, Cameron cita spesso Jaques Cousteau: «Non si protegge quello che non si ama» diceva l’oceanografo spiegando perché filmava il mare, oltre a studiarlo. Avatar: la via dell’acqua lettera d’amore al mondo naturale a sua volta è bella e «vera» e urgente come le immagini raccolte dall’equipaggio della Calypso.