«Dopo avere invano cercato le tre Pirelli fiammanti nella siepe dei cipressi di fianco al muro di allenamento, Giovannino si rassegnò, vinto sino a sedersi. Raccolse una manciata di terra, e la lasciò filare adagio, pensando che la sua mano fosse una clessidra araba, e presto la lievissima polvere rossastra si trasformò in un deserto, e nel deserto c’era papà, che alla sua ultima visita gli aveva offerto di praticare uno sport, ormai ne aveva l’età: avrebbe preferito la scherma, come il nonno, oppure il tennis? Lì per lì non aveva saputo decidersi. Papà era diverso dagli altri bagnanti, con quella sua canottiera di lana, l’aria silenziosa, quasi a disagio. Lo prendeva di continuo per mano, senza poi saper che farsene, quasi stringesse un’impugnatura». Così si legge in uno dei primi passaggi di Alassio 1939, una delle tre storie che compongono I gesti bianchi di Gianni Clerici. Eravamo, già qui, di fronte a una sorta di rapido e nemmeno troppo sviato ritratto autobiografico: l’entrata del tennis – e con questo del «mondo» – nella vita di un ragazzo, l’arrivo del primo ingenuo innamoramento, un padre lontano a tentare la fortuna commerciale in proprio (con una ditta di rifornimenti automobilistici) in Africa e, di lì a poco, il vento freddo della guerra a soffiare sull’Europa, anche sulla rassicurante eleganza belle époque della riviera ligure. Notava Oreste del Buono, firmando il risvolto del libro – e definendo lo stesso volume un «rapinatore crudele di attenzione» – che il narratore dei Gesti bianchi «non ha volutamente nome», tenta in qualche modo di nascondersi per parlare invece «determinatamente a nome di ogni lettore sensibile». Vent’anni dopo – la trilogia de I gesti bianchi esce nel 1995, anche se il secondo capitolo, Costa azzurra 1950, era già apparso nel ’74 – il Clerici narratore torna in qualche modo a prendere pieno possesso di quelle storie, ricominciando esattamente da lì – da un recinto familiare che proprio l’avventura africana del padre sottilmente incrina – la propria autobiografia: Quello del tennis Storia della mia vita e di uomini più noti di me (Mondadori «Ingrandimenti», pp. 200, euro 20,00). Già il titolo annuncia, tuttavia, che qualcosa di quella difficoltà o riluttanza a parlare direttamente di sé – e, a guardar bene, qualcosa di quello stesso «non decidersi» del ragazzo-Giovannino di fronte alla prima scelta – è rimasto impigliato nelle pagine del nuovo libro (e certo non si può non riconoscere una perfetta sincronia fra questa stessa riluttanza e la più generale tendenza di Clerici, anche del Clerici giornalista, allo sguardo obliquo, all’ironia autodifensiva, all’understatement). Tiene molto, il dubitoso autore, a definire le sue pagine una «bio-eterobiografia», ovvero un racconto sulla cui scena il protagonista principale è costantemente accompagnato da altri personaggi, ed è anzi attraversato dalla tentazione di abbassarsi al ruolo di comprimario, di voce – magari non immediatamente riconoscibile – dentro il coro. C’è una specie di contraddittorio piacere della marginalità, nel Clerici che si «esibisce», che lo conduce spesso a raffigurare la propria parabola come quella dell’Incompiuto: sia quella del tennista promettente (il libro è punteggiato di incontri o sfide con quelli che sarebbero poi diventati dei campioni affermati, da Fausto Gardini a Orlando Sirola a Jaroslav Drobný), poi bloccato anche da guai fisici e da una malattia piuttosto seria; sia quella del narratore adocchiato e apprezzato da critici e scrittori ricordati nel libro, come Soldati e Bassani (e finanche del poeta, i cui versi vennero preziosamente definiti «simili alla seta», nientemeno che da Attilio Bertolucci). E, nel fondo, un profondo desiderio di non-appartenenza e di non-identificazione lo porta anche a non accettare del tutto nemmeno l’etichetta del giornalista, e a definire il proprio percorso una «non carriera»: «Io stesso non mi ritengo meno narratore di quanto non sia giornalista, e viceversa», dichiara Clerici, dentro una dialettica che rimane non risolta (e forse è dunque anche un bene, quel suo «non decidersi», ed è insieme il segreto delle sue più riuscite e splendide columns).
«La vita avrebbe potuto essere questa meravigliosa illusione di adolescenti, in un prato verde. Fuori da questa illusione non resta che la noiosa trafila delle abitudini adulte, degli impegni seri»: parole che Cesare Garboli aveva riservato a Fuori rosa, il primo romanzo di Clerici, costruito intorno a un calciatore ormai al declino. Quello stesso senso di perduta giovinezza, e soprattutto quel «avrebbe potuto essere», sono la radice dello stile di Clerici: si intravedono quasi a ogni pagina. Si consuma, nella sua scrittura, la fine del mito dell’alto borghese, che guarda con malinconia – e magari con un certo istinto di colpevolezza – alla sua sempre imperfetta realizzazione di adulto. E un po’ come nella poesia di un altro lombardo appartato e proveniente quasi dagli stessi luoghi di frontiera – Vittorio Sereni – sono l’amicizia e la bellezza del gesto atletico a compensare quel che manca (ma in Clerici, certo, in una chiave volutamente autodiminuita, se era fra l’altro proprio un poeta «minore» come Roger Allard, a prestargli il verso-citazione per il titolo dei suoi Gesti bianchi). Emerge forse fra tutti, in questo senso, il ricordo costante e affettuoso del «grande amico» e maestro Gianni Brera, con il quale Clerici aveva cominciato a lavorare nella redazione del Giorno (anche se pure sull’immagine degli amici può talora allungarsi l’ombra di un pensiero scuro, come per le righe dedicate alla morte di Guido Rocca e Adolfo Covi).
Pescando invece fra gli incontri «in letteratura», a spiccare sono i paragrafi che ricostruiscono una visita all’amato Herman Hesse – la cui vena orientale e spirituale bene si incontra, probabilmente, con l’interesse e la necessità, per Clerici, del trascendente, ribadita anche dalla sua laurea in storia delle religioni. E, soprattutto, merita di essere ricordato il racconto dell’incontro fortuito con Hemingway. Non solo per la statura del personaggio, ma perché da lui «lo Scriba» ascolta la (magica) storia del torero Rafael Romero: un racconto che infine non si trova fra le pagine di Hemingway, e che Clerici dunque qui salva e recupera. Come la vita, anche la letteratura e la scrittura sono fatte di parti mancanti, di frammenti, di storie «che avrebbero potuto essere». Così questa «bio-eterobiografia» è anche, a tratti, un libro di libri mai scritti. Anzitutto quel «diario tennistico», quella sorta di zibaldone di incontri e ritratti più volte richiesto da editori e amici, di cui il capitolo «Tennisti» e le bellissime, partecipi pagine su Nicola Pietrangeli costituiscono, qui, una sinopia destinata magari a rimanere semplicemente tale. Anche questo è forse un estremo omaggio alla condizione del (supposto) Incompiuto. O un trucco per non toccare troppo da vicino gli amati campioni, per non soffocarli mettendoli per così dire sotto vetro: «Mi pareva che simili grandi campioni avrebbero dovuto essere trasportati, alla fine della giovinezza, sul monte Olimpo, dove avrebbero svolto attività, se non proprio divine, di umile collaborazione con gli dèi (…): God’s sparring partners». Fra sé e l’oggetto desiderato deve rimanere una distanza: il modo migliore per consentirsi di coltivare ancora l’illusione, il sogno della propria giovinezza, che è poi il vero protagonista di ogni tentativo autobiografico, anche il più nobilmente schermato.