Stamattina nella sede dell’Istituto italiano per gli studi filosofici a Napoli si svolgerà un dibattito sul regionalismo differenziato, organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Campania e dalla Rassegna di diritto pubblico europeo, con i professori Giannola, Lucarelli, Morelli, Marotta, Patroni Griffi, Papa, Villone e il sottoscritto. Sarà un’occasione importante per discutere del processo, controverso e ambiguo, volto alla concessione di maggiori competenze alle regioni. Come è stato messo in evidenza da molti commentatori, il motivo reale alla base della richiesta è politicamente riassumibile nel rozzo quanto chiaro slogan, a suo tempo coniato dalla Lega Nord, secondo il quale «i soldi del Nord devono rimanere al nord».

Questa chiave di lettura è sufficiente a spiegare le reali istanze materiali che sostengono le recenti iniziative volte a dare attuazione all’art. 116, comma 3, Cost. che rischiano di innescare un processo disgregativo e centrifugo. Ma come è possibile che l’attuazione di una disposizione costituzionale possa produrre un risultato così dirompente? Perché probabilmente è la disposizione più ambigua e mal scritta dell’intera modifica del Titolo V del 2001 che ha consentito che il principio autonomistico potesse essere interpretato in funzione antagonista all’unità e all’eguaglianza, laddove l’autonomia è indissolubilmente legata proprio a questi valori, in quanto si pone come strumento per la loro migliore e più coerente attuazione. In altre parole, l’art. 116 di cui oggi il ceto politico regionale chiede l’attuazione, con modalità che ne accentuano la carica disgregatrice, è il frutto più pericoloso di quel «manifesto di insipienza politica e giuridica» (Gianni Ferrara) che fu la modifica costituzionale del 2001.

Questa genesi antiunitaria del regionalismo differenziato non poteva non innervare di sé tutto il processo e sta infatti caratterizzando lo stesso iter procedimentale. Stiamo, pertanto, assistendo a un’inammissibile emarginazione del parlamento che nemmeno il pessimo art. 116 contempla.

Le bozze di intesa (non ufficiali) elaborate nel corso dei primi mesi del 2019 ipotizzano, infatti, un procedimento in grado di scavalcare del tutto il parlamento, attraverso un meccanismo che vorrebbe affidare le scelte caratterizzanti e maggiormente problematiche dell’autonomia differenziata al successivo lavoro di commissioni paritetiche bilaterali Stato Regioni. Si tratterebbe cioè di una “delega” in bianco del parlamento a organismi privi di legittimazione democratica a scrivere quella che può essere definita una vera e propria riforma della costituzione. Un’ipotesi a buon diritto definita eversiva (Roberto Bin), non è un incidente di percorso ma l’esito coerente, sul piano procedurale, di un tentativo di secessione mascherata.

È pertanto un bene che le classi dirigenti di questo paese stiano manifestando crescente diffidenza nei confronti di questo processo, forse perché stanno finalmente comprendendo quanto è ancora essenziale il ruolo dello Stato per garantire coesione e sviluppo economico del paese in un mondo globalizzato e fortemente competitivo, dominato da potentissimi attori multinazionali privati e da potenze globali come Usa e Cina. Queste classi dirigenti vorrebbero scongiurare il rischio che i cittadini delle regioni del nord, tra qualche anno, rimpiangano l’amministrazione centrale e lo Stato unitario come presidi di imparzialità, di efficienza e di sviluppo.