Nel 1971, un anno prima della pubblicazione del Rapporto sui Limiti dello sviluppo del Club di Roma, Aurelio Peccei pubblicava sulla rivista francese Preuves un saggio sul futuro dell’automobile, intitolato Il crepuscolo di un idolo (trad. ital., CNS n.10, novembre 2002). Aurelio Peccei (1908-1984), economista e pensatore, manager illuminato prima della Olivetti e dopo della Fiat, artefice del Club di Roma, sosteneva già allora che l’auto fordista era superata. Per avere un futuro doveva cambiare in modo radicale, diventando più semplice sul piano tecnologico, diversa a seconda della natura e della distanza degli spostamenti, di proprietà collettiva anziché individuale per non restare a lungo inutilizzata nelle strade o nei garage. «L’automobile deve diventare semplicemente un bene d’uso, spiegava Peccei, con le seguenti caratteristiche: massima sicurezza, minimo inquinamento, minimo ingombro… L’idea che si debba utilizzare la propria automobile per i piccoli e medi spostamenti scomparirà a mano a mano che l’automobile si imporrà come un bene d’uso, di cui ci si serve quando se ne ha bisogno e si lascia ad altri quando non occorre… Questo cambiamento di mentalità richiederà profonde modificazioni nella progettazione e costruzione delle automobili, in funzione dei differenti bisogni che si hanno nella città e nei percorsi lunghi: ci saranno solo due o tre modelli di autoveicoli, molto semplici e quanto più possibile standardizzati». Per ottenere questo cambiamento, Peccei faceva diverse proposte, da realizzare a tempo debito. Nella prospettiva lunga, i nuovi sistemi elettronici potranno adattare i sistemi di trasporto delle città alle necessità individuali, introducendo i microbus ad itinerario variabile al posto degli autobus a percorso fisso. Nell’immediato, diceva ancora, è probabile che prevalga il mezzo collettivo visto che lo spazio occupato da questo tipo di mezzo di trasporto è 25 volte inferiore, per persona trasportata, a quello occupato dai mezzi di trasporto privato. A medio termine, infine, a fianco dei trasporti collettivi torneranno quelli privati con piccole automobili adatte al traffico urbano. Nei cinquant’anni trascorsi da allora, l’automobile è sicuramente cambiata, e alcune delle proposte di Peccei sono state sperimentate. Ma nessuna di esse è stata inserita nel contesto di un orizzonte generale sia del paese che della mobilità. Questo orizzonte non esiste infatti in Italia, nonostante esso sia l’unica via capace di legittimare il cambiamento e di dare ad esso una prospettiva di successo. Al di fuori di questo orizzonte, che non è la programmazione statale ma un orientamento sostenuto dalle istituzioni e in particolare dal governo, qualsiasi cambiamento è una opzione astratta, un dover essere, un «chiacchiericcio» scollegato dalla vita concreta delle persone. È questo elemento che divide i fautori dello sviluppo fondato sul profitto, che provoca la cementificazione del suolo e il cambiamento climatico, dai fautori dello sviluppo umano, teso a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della popolazione. La decisione di fare o non fare una grande opera come il Tav Torino-Lione non può pertanto dipendere da valutazioni parziali ancorché vere come «il treno inquina meno del trasporto su strada», o come l’analisi costi-benefici, che aiuta solo a scegliere tra due o più progetti diversi per realizzare una grande opera già decisa a livello politico. Qualsiasi grande infrastruttura ha un forte impatto ambientale sul territorio e sulla popolazione che lo abita, e può dunque essere decisa solo nel contesto di un orizzonte o piano generale della mobilità di quel paese. Solo così la decisione può essere compresa e accettata dalla popolazione.