Diceva Vladimir Nabokov, la cui presunzione era pari alla sua maestria: «scrivo per il mio piacere, ma pubblico per denaro». Chissà se era del tutto sincero, eppure chiunque mette più di due parole in croce si interroga su quali siano i suoi potenziali oppure per stia prendendo appunti solo per se medesimo.
Nei secoli, i narratori hanno sperimentato infiniti espedienti: hanno inventato proprie storie dando vita a poemi, racconti e romanzi, hanno spulciato la vita degli altri con le biografie, si sono lasciati ispirare dalla storia per plasmarla a loro piacimento. Eppure, se prestiamo fede ad Anna Iuso (Per un’antropologia delle scritture del sé, Carocci, pp. 110, euro 13), è possibile individuare un nocciolo di scrittura che non è destinato a lettori esterni, quanto a rispecchiare i rimuginii dell’autore. Le forme che Iuso identifica sono sostanzialmente tre: l’autobiografia, la corrispondenza e il diario. Ognuna di esse si è evoluta fino a fondersi con la produzione letteraria.

ESTESISSIMA LA PLATEA di chi si può potenzialmente cimentare con l’autobiografia. Non solo e forse non tanto chi è di professione scrittore, anche perché solo alcuni di loro hanno avuto una vita sufficientemente avventurosa da sostenere un intreccio. Le autobiografie di autori quali Pablo Neruda e Gabriel Garcia Marquez sarebbero quindi le eccezioni che confermano la regola. L’universo dell’autobiografia si popola di artisti (Benvenuto Cellini), filosofi (Giovan Battista Vico, Jean-Jacques Rousseau), politici (Winston Churchill, Nelson Mandela) e nei tempi moderni il formato è stato usurpato da imprenditori, cantanti, calciatori e chiunque abbia notorietà da condividere.
Non è detto che le autobiografie dei non-scrittori siano di qualità letteraria inferiore. A carriera politica terminata, Churchill non ottenne il Premio Nobel per la pace, ma quello per la letteratura grazie alla sua monumentale Storia della seconda guerra mondiale, dove attingeva a piene mani ai suoi ricordi personali. Ci sono poi coloro che devono la fama eterna solo alle proprie memorie. Il loro principe è Giacomo Casanova, perdigiorno e ancor di più perdinotte, ma anche autore prolifico – come tanti altri figli del Secolo dei lumi – di saggi, traduzioni, resoconti politici, opere letterarie e quant’altro. Eppure, nessuno si ricorderebbe di lui se non avesse speso gli ultimi diciassette mesi della sua vita a trascrivere le sue vicende su ben 3700 fogli.

DAL PUNTO DI VISTA antropologico, si assume che «la vita narrata debba coincidere con la vita di una persona realmente esistita», e che il narratore stringa un patto di veridicità con il lettore. Sappiamo bene che così non è, e ogni autore di memoriali ha modificato abbellito, drammatizzato e spesso inventato eventi di sana pianta. Eppure, il lettore viene attratto dalla calamita narrativa perché ha contezza che il resoconto è reale e le invenzioni limitate.
Una seconda e parallela forma di cronaca del sé è la corrispondenza. Spesso scritta per ragioni strumentali, si è progressivamente affermata come una esposizione capace di diventare addirittura contenitore omnicomprensivo di eventi personali e storici. La forma è così flessibile che ha dato origine ad una categoria specifica quale il romanzo epistolare.
La terza – il diario – si presenta come la più intimistica. Le biblioteche, sempre più avare dei propri spazi, hanno ripreso a raccogliere e valorizzare i manoscritti, a cominciare dalla memorialistica, invertendo quella tendenza secolare, iniziata nel 1450 con la stampa a caratteri mobili, che ha visto progressivamente ridurre gli scaffali destinati ai manoscritti per far posto ai libri stampati.
Sul diario come forma narrativa si è sviluppato un fiorente interesse. Proprio per la capacità di svelare pensieri reconditi, i diari sono oramai diventati una fonte preziosa per comprendere motivazioni e aspirazioni dei loro estensori e della loro epoca.

IN ITALIA, l’Università di Pavia ospita il «Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei», destinato prevalentemente a raccogliere gli appunti inediti di scrittori affermati. Così come tutti i pittori hanno il proprio prezioso blocco in cui elaborano schizzi e bozzetti, gli scrittori usano il proprio taccuino, una sorta di laboratorio privato in cui combinano parole, pensieri, storie addirittura suoni.
Ma il diario non è forma espressiva riservata ai soli scrittori. Da qui l’attenzione antropologica anche per i tanti ignoti i cui testi smarriti e recuperati costituiscono una fonte privilegiata per comprendere la vita sociale e le pulsioni psichiche. Da queste motivazioni sono nate nuove istituzioni come l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e l’Archivio della scrittura popolare della Fondazione Museo storico del Trentino, entrambi dedicate a raccogliere e conservare la memorialistica più disparata.
Anche quelle che Anna Iuso definisce le scritture del sé sono destinate a subire le irruenti modifiche del nostro tempo. Nel momento in cui la carta è sempre più rimpiazzata dal digitale, che ne sarà di autobiografie, corrispondenze e diari?

LE FORME si stanno evolvendo: si pensi ad esempio ai blog contemporanei, nuova forma di autobiografia del XXI secolo, scritti istantaneamente e non più – come era invece per Sant’Agostino e Rousseau – come riflessione sulla vita trascorsa. La rapidità della posta elettronica e degli sms ha fatto smarrire quella ponderazione con cui una volta si scriveva ai corrispondenti prima di infilare la missiva in una busta affrancata. Si pensi alle storie su Instagram, Facebook e TikTok, che hanno rimpiazzato le agende di fanciulle e fanciulli: alla parola si è progressivamente sostituita l’immagine. Non solo, ma alla ricerca della notorietà, i «post» sono proprio l’antitesi di quell’intimità coltivata nelle pagine del vecchio e segreto «caro diario». Proprio per questo, la scrittura del sé diventa una testimonianza ancora più preziosa sul mondo di ieri. Di cui saranno ghiotti utilizzatori gli storici del futuro ancor più degli antropologi.