Qualche anno fa, l’ho visto al teatro Marigny in zona Champs Elysées, in un Cyrano de Bergerac disinvolto e fracassone. Nonostante il naso schiacciato da pugile adeguatamente allungato per entrare nel personaggio, la sua indelebile aria da macho sembrava renderlo più adatto al ruolo di Cristiano, l’atletico guascone amato da Rossana, che alla sorniona malinconia del poeta spadaccino. Se non tutto funzionava nello spettacolo, in cui il mito si dava al suo pubblico plaudente, quello che mi ha colpito di più dell’attore francese è la sua inesauribile carica di simpatia, una simpatia travolgente in grado di far dimenticare tutto il resto, anche le défaillances della messinscena.
Quella stessa prodigiosa simpatia che attraversa le pagine dell’autobiografia «Mille vite, la mia» appena uscita da Donzelli (pp. 240, euro 26,00). Straordinario animale da cinema, era entrato sullo schermo dalla porta principale con «Fino all’ultimo respiro» (1960) di Godard, il capolavoro del cinema moderno che fa di lui l’attore-simbolo della Nouvelle Vague. Come dimenticare la sequenza in cui Belmondo e Jean Seberg, che col suo fascio di giornali in mano strilla «New York Herald Tribune», stanno camminando insieme sui Champs Élysées? Se certi tratti del personaggio erano stati anticipati l’anno prima da A doppia mandata di Chabrol, è con il Michel Poiccard del film godardiano che Belmondo diventa subito una star, anticipandone gli sviluppi successivi di avventuriero simpatico, in bilico tra sfrontata sicurezza e intima fragilità.
Il paradosso della sua carriera è che la partecipazione al cinema moderno degli anni sessanta è particolarmente circoscritta. Sono solo un paio gli altri film di Godard in cui appare, di cui «Pierrot le fou» (1965) è fondamentale perché radicalizza la decostruzione a oltranza dell’impianto narrativo, la moltiplicazione di riferimenti, citazioni, digressioni, strizzate d’occhio. Si direbbe che Jean-Paul regga bene il ritmo caleidoscopico del film fino a esibirsi nella imitazione di Michel Simon o a paragonarsi a Pépé le Moko. Quando poi chiede a Samuel Fuller cos’è il cinema, sembra condividere completamente la risposta: «Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte, in una parola: emozione». Forse l’altro autore Nouvelle Vague che più ha amato Belmondo è Truffaut, che all’epoca dice : «È l’attore più completo d’Europa. Alterna nella sua carriera tre personaggi: quello che discende da Sganarello, quello ispirato agli eroi dei film di gangster americani e quello che sembra il figlio di Gabin nella Bête humaine». Sul set di «La mia droga si chiama Julie» (1969), ciò che François apprezza di più è la sua capacità di capovolgere gli stereotipi. Se Jean-Paul smetteva le sue pose di spaccon virile, Catherine Deneuve avrebbe potuto, dopo tanti successi rosa, diventare finalmente cattiva: «Catherine era un ragazzo, una canaglia che ne aveva fatto di tutti i colori, e Jean-Paul una ragazzetta che si aspetta tutto dal matrimonio. Lui si sposa tramite un annuncio matrimoniale, quasi quasi gli facevo dire nei titolo di testa: Ragazzo di ventinove anni, isola della Réunion, vergine, cerca scopo matrimonio ecc. Lui non lo dice, ma per me stringi stringi, Belmondo è vergine!»
Sul set di «A doppia mandata» si era imbattuto in Philippe de Broca, l’assistente di Chabrol, che pochi anni dopo diventa regista e produttore. Con lui realizza quattro film, da «Cartouche» (1962) a «L’uomo di Rio» (1964), da «L’uomo di Hong Kong» (1965), a «Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo» (1973), dove le doti acrobatiche da stuntmen e l’istrionismo non privo di ironia del divo danno vita a un esplosivo cinema d’avventura che manda in tilt il box-office. Quante donne nella sua vita, a partire dalla prima moglie Élodie Constantin, da cui ha avuto tre figli.
Ci sono poi le lunghe relazioni con Ursula Andress e Laura Antonelli. Senza dimenticare la seconda moglie Natty Tardivel da cui è nata Stella. Mi sono piaciute molto la schiettezza e la discrezione con cui ne parla, evitando reticenza e sensazionalismi.
Al sorridente patriarca dai capelli bianchi, circondato da figli, nipoti e premi, verrebbe da rivolgere tante domande. Ma l’appagata serenità della sua autobiografia, che rifugge da ogni rovello intellò, sconsiglia di insistere. Sul set dei suoi settanta film si è sempre divertito, non ha mai smesso di giocare. Che sia questa la sua ricetta per la felicità?