Due settimane fa c’è stata la giornata dedicata all’autismo. Di essa non si sa se evoca la speranza di una rinascita o se è una commemorazione di caduti.

Lo stato della cura dei bambini cosiddetti autistici è deplorevole: chiusi nella loro definizione diagnostica sono nella vita sociale inesistenti. Cittadini senza diritti reali, migranti senza origine e senza meta, identità smarrite non riconosciute e non accettate. Perduti nello “spettro autistico” (termine che rende bene, involontariamente, la loro configurazione spettrale nella nostra percezione) consistono solo come peso scomodo sulla nostra pigra coscienza.

I genitori sono lasciati a se stessi o strumentalizzati per essere coalizzati contro un falso nemico: la psicoanalisi, rea di averli colpevolizzati. Lo psicoanalista che colpevolizza i genitori dovrebbe cambiare mestiere, ma il cognitivista che li deresponsabilizza è manipolatore.

Il senso di colpa nei confronti dei figli (e in generale delle persone care) che soffrono o sono emarginati dalla vita, è inevitabile. Cosa abbiamo sbagliato nei loro confronti (e sempre abbiamo sbagliato in qualcosa), perché siamo così impotenti? Perché loro e non noi?

Questo senso di colpa che non ci rende colpevoli, ci spinge a riparare il danno non provocato da noi. Così diventiamo responsabili. I genitori dei bambini disagiati non sono colpevoli se non nella misura in cui non ne assumono la responsabilità. Ma per fare questo devono essere aiutati a comprendere i loro sentimenti di rigetto e di rabbia e sostenuti nel loro dolore.

Cos’è davvero l’“autismo”? Non lo sappiamo. Il termine è adatto a esprimere l’autoreferenzialità, l’essere troppo centrati su se stessi. L’essere, in altre parole, poco eccentrici rispetto al proprio centro di gravità, per nulla mossi, inclinati verso l’altro.

Questa condizione, che non è mai del tutto assente in noi, convive con l’uso del linguaggio, il mutacismo è una sua estrema (il più delle volte temporanea) espressione. Dell’autoreferenzialità (negli altri e in noi) ce ne accorgiamo attraverso la mancanza dell’effetto trasformativo (sugli altri e su di noi) che producono le relazioni vere.

Il confronto tra trasformazione e staticità, immutabilità, consente la conoscenza dei fenomeni autistici e la loro descrizione a condizione che essi siano comunque collocati in un tessuto relazionale in cui la parola ha una funzione centrale.

Per i bambini che non accedono all’uso della parola è molto difficile se non impossibile avere delle inferenze a posteriori sugli inizi della loro vita psichica. L’autoreferenzialità è una nostra proiezione su di loro.

Si cerca di risolvere la questione gettando questi bambini nel mucchio dello “spettro autistico” (di scarsa precisione diagnostica e raccogliente situazioni molto eterogenee) e affibbiando loro lo stigma genetico di una disabilità permanente, camuffata dal perbenismo del “diversamente abile” e sottoposta a addestramenti correttivi.

Lo studio più accurato (ma inficiato da problemi diagnostici) è del 2015. Condotto da ricercatori britannici e svedesi attribuisce la causa dell’autismo, nella sua definizione generica, per metà a fattori genetici e per metà a fattori ambientali. Questi ultimi non sono stati indagati per mancanza di competenza dei ricercatori.

Le indagini genetiche in campo psichiatrico (dove l’autismo tende a essere recintato) risentono di una impostazione rigidamente deterministica (l’epigenetica è ignorata). Il determinismo non c’è più nella fisica, non c’è stato mai nella matematica, non c’è più nella genetica.

Cerca, nondimeno, con innegabili successi, di imporsi ideologicamente, economicamente, “militarmente” nel campo della cura psichica, ma anche nella definizione della vita “normale”, vista come concatenazione di comportamenti corretti, socialmente adatti.

Seppellisce la domanda che i bambini “autistici” pongono al nostro mondo: il loro silenzio segnala qualcosa che non va in loro o in noi?