Nonostante la tregua con Israele raggiunta il 26 agosto, il numero degli sfollati a Gaza è di nuovo in aumento. «Dopo il cessate il fuoco abbiamo registrato un forte calo del numero di sfollati interni che poi è aumentato di nuovo, 110.000 palestinesi sono ancora nelle strutture e nelle scuole dell’Unrwa, in rifugi o presso famiglie ospitanti», ha riferito Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari. Dati che ribadiscono la gravità della crisi provocata dall’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” e che si aggiungono alle notizie contrastanti sulla ripresa dei negoziati per un cessate il fuoco permanente tra Israele e i palestinesi prevista a fine mese o all’inizio di ottobre. Gli egiziani annunciano che una delegazione israeliana andrà presto al Cairo per discutere tempi e modi per l’inizio dei colloqui. Qualche giorno fa però la tv Canale 10 aveva riferito che il premier Benyamin Netanyahu non ha intenzione di proseguire le trattative sulle questioni rimaste aperte.

Per i palestinesi di Gaza non è cambiato molto, malgrado i proclami di “vittoria” giunti dai leader di Hamas. Israele non ha concesso nulla, ad eccezione dell’estensione dei limiti di pesca e un teorico allentamento delle restrizioni ai valichi di frontiera per l’ingresso di materiali da ricostruzione e aiuti umanitari. L’Egitto da parte sua afferma che renderà più facili i movimenti attraverso il terminal di Rafah. Sino ad oggi si è mosso ben poco. Le questioni vere sono la revoca totale dell’assedio di Gaza, la costruzione del porto marittimo e dell’aeroporto, la liberazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Tutte sono legate al successo di negoziati al Cairo, che non è garantito, anzi.

Le premesse sono negative. Anche perché qualsiasi concessione alle richieste palestinesi farebbe apparire in una luce ancora più negativa Netanyahu, già accusato dai media e da una buona porzione dell’opinione pubblica di non “aver risolto il problema Hamas”. Senza dimenticare che Israele condiziona tutto al disarmo di Gaza, richiesta già respinta dalla resistenza palestinese.

Cosa faranno Hamas e gli altri partiti e movimenti palestinesi in caso di fallimento delle trattative, è l’interrogativo che si pongono molti. A dar credito alle dichiarazioni dei dirigenti del movimento islamico, i palestinesi sarebbero pronti a riprendere le ostilità pur di raggiungere gli obiettivi. Tuttavia pochi credono a uno sbocco del genere, alla luce anche della gravità della crisi umanitaria che richiede interventi massicci e continui. E’ opinione diffusa che i raid israeliani abbiano avuto lo scopo di tenere i palestinesi più occupati a ricostruire che a reclamare i diritti negati. Occorreranno 4,4 miliardi di dollari per la ricostruzione, più altri 3,4 miliardi per creare le infrastrutture necessarie allo sviluppo di Gaza.

L’emergenza sfollati intanto si aggrava. Tra il 26 e il 27 agosto, subito dopo la proclamazione della tregua, il numero degli sfollati nei rifugi dell’Onu era sceso drasticamente da 289.000 a 53.000. Ma dal 2 settembre, comunica l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi, i palestinesi accampati nelle scuole sono saliti a 58.217. Molti tra chi ha ancora una casa nelle zone più colpite, preferisce restare nei rifugi perché teme la presenza tra le macerie di bombe inesplose e munizioni. Quelle aree peraltro sono prive di elettricità e acqua. L’unica centrale elettrica di Gaza rimane inutilizzabile dopo essere stata colpita da cannonate il 29 luglio. Molto gravi anche i danni alla rete idrica e di smaltimento delle acque reflue. Dal 20 al 30 % delle famiglie (450.000 persone) non hanno ancora accesso diretto all’acqua. Oltre 15 mila case sono state danneggiate, tra cui 2.276 completamente distrutte. Circa 108.000 palestinesi hanno bisogno di soluzioni abitative a lungo termine. La gravità dei danni, rileva Ocha, «è senza precedenti dall’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967».