Nel lontano 1985 nessuno avrebbe predetto che Il racconto dell’ancella sarebbe diventato il romanzo più famoso e commercialmente duraturo di Margaret Atwood. Quella spiacevole distopia sulle sventatezze umane che avevano portato al crack del pianeta veniva ambientata negli Stati Uniti, camuffati in una biblica terra chiamata ironicamente Gilead (dove invece c’è un balsamo che risana il male), disgraziatamente regredita a uno stato dittatoriale di radici puritane e di stampo anti-femminista. Dopo il disastro derivato dalle pratiche contraccettive degli anni del femminismo della seconda metà del ventesimo secolo, nella nuova Gilead è necessario, infatti, procreare a tutti i costi per non sparire demograficamente dal mondo. Quindi, una nemesi tremenda colpisce la hybris delle donne di allora (sono loro infatti le colpevoli), asservite dai dittatori alle ferree normative del potere maschile, anche a causa dell’intervenuta catastrofe ecologica che ha reso infruttuosa la terra.
Sulla sterilità agreste c’è chi intravvede alla base del libro gli antichi rituali vegetativi di cui parlano Sir George Frazer e T. S. Eliot, quelli governati dalla luna, solitamente simbolo femminile, una tematica molto amata da Atwood, la quale nella sua carriera non ha mai dimenticato la «dea bianca» (la white goddess), di cui aveva letto nel libro eponimo di Robert Graves. E così anche nel Racconto dell’ancella ella si rifà al mondo della magia del mito, ponendolo a polo di salvezza immaginativo e figurativo. Il mondo, divenuto una «terra desolata», si salverà solo se le donne torneranno alle fonti del mito, rigenerando così le loro capacità riproduttive.
Quella del Racconto dell’ancella è davvero una storia raccapricciante. Tuttavia, essa è anche, in realtà, una messa in ‘prova’ di Atwood, la quale sapeva bene che nel 2020 i bambini ci sarebbero stati (basti il caso di Greta Tauber) solo che sarebbero stati un po’ meno numerosi. E sapeva pure che anche la terra ci sarebbe ancora stata, solo che il buco nell’ozono sarebbe cresciuto a dismisura. Il film che ne fu tratto allora risveglia l’amaro in bocca a chi ebbe la fortuna di vederlo, facendo lievitare alla memoria le schiere di donne in fila per il pane da portare a casa e un Robert Duval diabolico in una scena di copulazione necessaria a combattere il male ma, nella violenza che esibisce, bestiale. Come disse allora Atwood, Il racconto dell’ancella è un’«anti-predizione», ovvero la proiezione di un modello di ciò che non si deve fare per non giungere al fondo da raschiare. Era, insomma, solo un monito, un allestimento di ciò che potrebbe accadere nel futuro. Atwood – rinomata ecologista – l’ha ripetuto e ripetuto, soprattutto con la trilogia dedicata a MaddAddman (2003-’13) e i suoi protagonisti, gli ‘uomini folli’ Orix e Crake, e i tanti altri.
Per quanto già sapesse (o non sapesse), secondo Atwood la «Storia non si ripete, ma fa rima con se stessa». Forse ella vuol dire che è soggetta ai cicli lunari o a quei corsi e ricorsi vichiani, prefiguranti il futuro e, al contempo, ribadenti il passato. Infatti, Atwood ha affermato più volte che tutto ciò che ci ha prospettato nel Racconto dell’ancella ha un precedente storico, anche se, purtroppo, non si mostra in grado di fornire al lettore risposte adeguate su molti dettagli riguardanti la fine di Gilead e dei personaggi che ha inventato. Pertanto, in I testamenti (Ponte alle Grazie, traduzione di Guido Calza, pp. 502, € 18,00), un seguito del Racconto dell’ancella, essa di nuovo proietta il presente in un ulteriore futuro, quasi a correggere le eventuali previsioni errate del racconto precedente e a ricontestualizzare quella distopia nell’ambito delle nostre previsioni rispetto a ciò che potrebbe accadere nel nostro futuro: «Trentacinque anni sono tanti per trovare delle risposte plausibili – precisa Atwood – perché le risposte sono cambiate mentre la società si modificava e determinate situazioni, da possibili, diventano reali». Quel che è certo è che per Atwood nel frattempo la dittatura di Gilead è per fortuna caduta, e la sequela che ella ci propone con I testamenti consiste nella rappresentazione di questo crollo, uno svanire e ricomparire paragonabile all’andamento lunare (la luna è onnipresente nel romanzo), al suo crescere e decrescere, mentre in commenti a parte sembra trasferire il tutto su un piano ideologico che ci riguarda oggi come ieri: «Può succedere – scrive – che i regimi totalitari si sgretolino dall’interno, per non aver mantenuto le promesse che li avevano portati al potere, o che vengano attaccati dall’esterno, oppure entrambe le cose. Non esistono formule infallibili, dal momento che nella Storia ben poco è inevitabile».
Se ci guardiamo intorno o torniamo indietro di trent’anni, se ne troverebbero di casi come quelli cui qui si allude. Qualcuno ha osato suggerire persino il nome di Trump, ammesso che la sua sia una dittatura e che Trump sia un dittatore e non il giullare di una qualche dea. Ma, attenzione, nulla di quello che scrive o suggerisce Atwood è da prendere sul serio. Per esempio, nel caso dell’ulteriore futuro rispetto al nostro, si scoprirà, non nell’Epilogo finale, ma in un’ultima nota, intitolata Il tredicesimo Simposio, che la storia, o le storie (o la Storia), sino ad allora raccontate, si svolgono nel 2197.
Se proviamo a decriptare questo anno del futuro e, al contempo, supponiamo che l’anno di scrittura dei Testamenti sia più o meno il 2017, sarà bene ricordare che nel solo gennaio del 2017 accadono molti eventi, tra cui i seguenti: Trump si insedia come Presidente; la Corte Suprema del Regno Unito pronuncia la necessità del voto per la Brexit; attentati terroristici a Istanbul e Baghdad; la Chiesa di Norvegia cessa di essere religione di Stato dopo 500 anni; il Marocco viene riammesso nell’Unione Africana; gravi terremoti in Italia. Il bollettino è raccapricciante ai fini del nostro futuro.
Con in epigrafe i culturalmente diversi George Eliot, David Grossmann e Ursula LeGuin, I testamenti riprende il filo quindici anni dopo la conclusione del romanzo precedente, con tre testimonianze volte a chiarire la complessa concatenazione di avvenimenti che ha portato alla fuga in Canada di alcune ancelle. La prima consiste di un documento olografo di Ardua Hall, o Zia Lydia (forse una proiezione della stessa Atwood), un’incrollabile sostenitrice di Gilead, che inizia il suo enigmatico racconto funestamente: «Solo chi è morto ha diritto a una statua; a me, invece, ne è stata dedicata una in vita. Sono già di pietra»; la seconda è quella di Agnes, la figlia di Offred (la protagonista principale del Racconto dell’ancella), cresciuta nel regime e ora – libera in Canada – costretta a vivere sotto falso nome per ragioni cautelative. La terza è quella della sedicenne Baby Nicole, rapita dalla polizia (gli «Occhi») e riportata a Gilead. Queste sono alcune delle ragazze cosiddette «Perla» che animano il romanzo.
Ciò che conta, tuttavia, non sono tanto le informazioni che queste donne hanno da consegnarci, quanto il fatto che tutte e tre, quella con più potere (Atwood?) e quelle senza, siano libere di poter scrivere la propria testimonianza, perché, lo si ricorderà, a Gilead alle donne erano proibite scrittura e lettura. La conoscenza è un’arma di potere, tanto spesso negata nel passato a donne di bassa e alta condizione sociale e, guarda caso, a schiavi. Nel Sud degli Stati Uniti agli Afroamericani delle piantagioni si vietavano proprio scrittura e lettura, in modo da tenerli nella loro ignoranza, perché, ricordiamolo, il sapere è potere.
Quindi, Atwood vede come un elemento distopico ricorrente nella Storia sia il divieto di scrittura che quello di lettura, quasi fosse preoccupata da un futuro dominato solo da piattaforme elettroniche, volte ad annullare l’uso del cartaceo. «I testamenti è stato scritto in molti luoghi – precisa – nella vettura panoramica di un treno bloccato su un binario di transito per una frana, su un paio di navi, in una quantità di stanze d’albergo, in mezzo a un bosco, nel centro di una città, sulle panchine dei parchi pubblici e nei bar, sul proverbiale tovagliolo di carta, su taccuini e su un computer portatile». Per Atwood: ultimo viene il computer.
È chiaro che ella qui sta giocando a poker, bastino le carte che ci mostra: molti luoghi (anche boschi), molti mezzi di trasporto, molti mezzi per la scrittura (anche carta: il banale fazzolettino di un bar, i soliti vecchi taccuini), insomma mette insieme elementi provenienti dalla natura e elementi provenienti dalla tecnologia, forse per dirci che entrambi sono utili a seconda delle circostanze e delle necessità, ma certo non ci dice di affidarci nel futuro alla sola digitalizzazione che rischia di renderci schiavi della meccanicità, di renderci tutti uguali e uniti dal linguaggio dei socia media, e di sottrarci alla piacevolezza della palpabilità della carta quando leggiamo.
Proprio scrivendo, invece, le donne liberate di Gilead contribuiscono con la loro testimonianza ad abbattere il potere che le ha tenute segregate nel silenzio. Questo vuol dirci Atwood con la scrittura ubiqua, computerizzata o ‘inchiostrizzata’ con cui ha scritto i Testamenti, che, è da notare, si era aperto con la luna piena e si chiude con la luna piena, ovvero vittoriosamente e con la Dea Bianca in piena luce, e la prospettiva di una nuova mitologia che saprà rifondare i valori del mondo. Quanto alla luna piena, essa appare assai meno confortante: «La luna piena getta su tutti il suo equivoco bagliore da cadavere. Tre Occhi di passaggio mi hanno salutata: al chiaro di luna i loro volti mi sono sembrati teschi, così come il mio dev’essere sembrato a loro».
Sarà compito di una rinnovata Zia Lydia rifornire le donne e i suoi lettori di nuove storie affinché la aiutino a rinnovare il mondo. L’ultima testimone (la Zia Lydia: Atwood?) ha il privilegio di chiudere il libro congedandosi: «Addio mio lettore. Cerca di non pensare troppo male di me – scrive – tra un attimo inserirò queste pagine dentro al Cardinale Newman e lo riporrò sullo scaffale. Nella mia fine è il mio principio, ha detto qualcuno. Chi era? Maria Stuarda, regina di Scozia, se la Storia non mente. Il suo motto ricamato su un arazzo, con una fenice che rinasce dalle ceneri. Eccellenti ricamatrici, le donne». Scopriamo così, per caso, che il libro (I testamenti) è solo un libro del passato e viene riposto sullo scaffale dal lettore accanto alle opere del Cardinale Newman.
Naturalmente, per il lettore che sa, il celebre «Nella mia fine è il mio principio» è un verso tratto dai Quattro quartetti di T. S. Eliot, oltre che – ma più in sottotono – il motto di Mary Stuart. Margaret Atwood continua a giocare anche nelle minuzie, solleticando il lettore in continuazione, lasciandolo senza fiato, circuendolo: cosa sarà, per esempio, quella fenice che rinasce? E quel ricamo alla Aracne, la quale, se per un verso porta fortuna, per un altro, con la sua ragnatela, dimostra di poter prendere al laccio il lettore? Il libro è attraente e deve essere comprato. Questa è la sua funzione e la ragione per cui lo si scrive.
L’Epilogo si conclude con un tocco alla porta, quello che forse porterà Zia Lydia alla ghigliottina per averne combinate di tutti i colori con i suoi Testamenti. Ma non sappiamo se veramente questa Zia Lydia (Atwood?) sarà alla fine ghigliottinata. Infatti, è nel post-Epilogo, Il tredicesimo Simposio, che apprendiamo che l’Associazione Storica di Studi Gileadiani, presieduta dalla Prof.ssa Maryann Crescent Moon (di nuovo la luna!), si è riunita per il suo tredicesimo convegno sulla storia di Gilead circa centottanta anni dopo la fine incerta della solita Zia Lydia.
Ma la nostra brava trickster (Aracne) provvede anche a questo, e aggiunge «un’ultima, affascinante tessera del puzzle». E così comprendiamo meglio l’incipit dei Testamenti, cioè la storia della statua: «Come vedete, la statua rappresenta una giovane donna che indossa il costume delle Ragazze Perla: notate il tipico copricapo, il filo di perle e lo zaino. In mano regge un bouquet di fiorellini che il nostro consulente erboristico ha identificato come nontiscordardimé».
Tra altre informazioni, la statua di pietra dedicata a una donna in vita porta scritta sulla lapide «In memoria di Zia Lydia», la quale, dopo aver discettato e scritto e fatto e disfatto, girando a vuoto attorno a Gilead, ha trovato infine il silenzio che cercava. Ma uscendo da quel silenzio, ella finisce col testimoniare fin troppo.
È ciò che Margaret Atwood vuole, nel senso che non vuole essere dimenticata. Nella presa in giro della scholarship erboristica e maniacale dell’Accademia, ella ricorda, infatti, al lettore che l’autrice dei Testamenti è ancora viva e che continuerà a tenerlo occupato ancora a lungo con la sua genialità, i suoi sghiribizzi letterari, il suo humor e i suoi scherzetti da briccona divina.