L’attività di musicologo di Beniamino Dal Fabbro (ma lui preferiva il termine «melòsofo»), oltre a focalizzarsi intorno a un impegno pubblicistico che andrebbe opportunamente rivalutato, ha prodotto alcuni libri che, per i concetti non sempre canonici ivi contenuti, sono stati contestati dai puristi più intransigenti. Da I bidelli del Walhalla (Parenti, 1954) alle cronache di Musica e verità (Feltrinelli, 1967), dalle Esperienze musicali di Jean Dubuffet (Edizioni del Cavallino, 1962) alla monografia su Mozart (Feltrinelli, 1975), la carriera di Dal Fabbro è costellata di alcuni cammei che, per la particolare commistione tra stile sorvegliatissimo e competenza enciclopedica, può essere accostata a quella di altri melomani «irregolari». Su tutti potremmo fare i nomi di Bruno Barilli e Giorgio Vigolo, di cui ricordiamo i resoconti delle Mille e una sera all’opera e al concerto che, dopo l’editio princeps del 1971 a opera di Sansoni, non ha conosciuto ristampe di sorta. Ma il testo più significativo di Dal Fabbro è Crepuscolo del pianoforte che ora Pendragon (pp. 272, € 18,00) recupera da quella sorta di damnatio memoriae che sembra aver colpito l’autore bellunese, degno fustigatore dei costumi nazionali del tempo, che si misurò indifferentemente con svariati generi: dalla poesia al romanzo, dal saggio all’elzeviro, dalla cronaca musicale alla traduzione (tra gli altri da Valéry e Camus, di cui rese in italiano La peste per Bompiani).
Il curatore Antonio Castronuovo, di cui menzioniamo il recente Dizionario del bibliomane per i tipi di Sellerio, ricostruisce con dovizia di particolari la storia editoriale del volume, composto tra il 1947 e il 1949: dal rifiuto opposto da Leo Longanesi, giustificato dal «tono eccessivamente letterario, intellettualistico», alla pubblicazione nella collana einaudiana dei «Saggi» (1951), con un’illustrazione in sovracoperta di un interno borghese di Matisse. A Castronuovo dobbiamo anche la recente ristampa per La Mandragora del romanzo Etaoin, curato con Giovanni Grazioli e originariamente uscito per Feltrinelli nel ’71, oltre all’allestimento dell’incantevole, minuscola collana delle «Opere di Beniamino Dal Fabbro» per Babbomorto Editore, arrivata con I libri che ho letto all’undicesimo titolo. Lo stesso curatore precisa nella postfazione come il volume colmasse all’epoca una grave lacuna editoriale, in quanto il precedente manuale Il pianoforte di Alfredo Casella risaliva al 1937 e sarebbe stato ripubblicato solo nel ’54.
Dal Fabbro ripercorre con arguzia e competenza la storia del pianoforte, chiamando in causa, con la consueta ironia, Ermes Trismegisto che, durante una passeggiata sulle sponde del Nilo, inciampa nel guscio di una tartaruga ricavandone un suono conturbante, prodotto da «alcuni tendini non consumati dal lavorìo delle acque», tesi da un’estremità all’altra del contenitore. Dal clavicembalo ai primi rudimentali esemplari di fortepiano allestiti dal padovano Bartolomeo Cristofori negli anni venti del XVIII secolo, Dal Fabbro si inoltra fino alla consacrazione definitiva del pianoforte avvenuta in epoca romantica, passando attraverso la ferrea disciplina di Muzio Clementi e altri antesignani. Si sofferma quindi sulle figure di Beethoven, Chopin, Liszt e parecchi altri, per proseguire le sue filippiche contro il virtuosismo fine a sé stesso. Il «crepuscolo» inizia contestualmente alle esperienze di Debussy e Ravel e in parte viene riscattato da casi isolati come quello di Ferruccio Busoni. Trovano inoltre spazio sia gli interpreti moderni specializzati nel repertorio classico e romantico (Horowitz, Backhaus, Cortot, Gieseking ecc.) sia le esperienze atonali novecentesche. Un critico come Massimo Mila non condivise «il pessimismo nero dell’ultimo capitolo», pur riconoscendo al libro di rappresentare un autentico «atto di amore verso il pianoforte». D’altronde è significativo che il titolo di Dal Fabbro sia stato a un passo dall’assegnazione del premio Viareggio per la saggistica nel 1952, attribuito invece a La casa della fama, scritto da un altro celebre «menagramo» come Praz.
Durissima è la presa di posizione nei confronti di Arturo Benedetti Michelangeli, considerato «prigioniero del suo laccato mondo sonoro». Tale critica ricorda la stroncatura, apparsa sul Giorno, di un’esibizione scaligera di Maria Callas (Anna Bolena), sfociata in un processo che ebbe ampio riscontro mediatico e che vedrà riconosciute al critico le proprie ragioni professionali. Ma, al di là delle idiosincrasie di Dal Fabbro che denotano un atteggiamento rigoroso contro il divismo musicale, non esente tuttavia da certa faziosità, bisogna evidenziare come la sua prosa impeccabile, elegantissima, riesca mirabilmente a conciliare l’opera di divulgazione a considerazioni sempre originali, che si esprimono attraverso giudizi entusiastici o sprezzanti, spesso al limite del paradosso.
Da segnalare l’appendice contenente Cinquanta avvertimenti ai giovani pianisti, dove l’autore, il cui sarcasmo non risparmia nemmeno sé stesso, precisa: «Ogni giorno rileggi questi avvertimenti, sino a che li avrai mandati a memoria; sarà un modo di ripeterli idealmente a chi li ha scritti».